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Russo | Leggendo Angiuli

Con la sua ultima raccolta di poesie (Addizioni, 2020, Nino Aragno Editore), Lino Angiuli sembra voler fare la sintesi di un percorso letterario e intellettuale lungo oltre 50 anni, non solo perché la seconda parte del libro raccoglie nella Bancarella dell’usato una sezione antologica di editi. Il suo primo libro (Liriche) è del 1967, e nella longevità della sua scrittura esistono delle trame che si sviluppano con coerenza fino a trovare una consapevolezza inequivocabile adesso. Sarà forse questa una delle ragioni del titolo, perché in Addizioni si sommano le istanze di una vita intera.

Angiuli è un raro caso di poeta progettuale, anti-frammentario, dantesco. Angiuli è poeta che sa quello che dice e per farlo ha bisogno di dare ordine alle cose del mondo, alle parole, e costruire un mondo e il suo racconto tra loro coerenti, perché “per diventare racconto 1 uomo deve farsi altro deve riempirsi le tasche con 1 ventina di erbe entrare in 1 cornice con la base che sia altezza mettere 1 pietra sull’altra per 1 casa sulla roccia bisogna cioè andare a capo cominciare da capo come se si fossero sbagliati i conti che tornano”. Ecco come in queste addizioni Angiuli manifesta la necessità di una coerenza armonica, di una identità ordinata tra le parole e le cose, e pare essere questo il suo messaggio, perché l’addizione non può essere corretta se non è somma di etica ed estetica in unità: “io per primo tradii la parola per farne 1 fiore cosiccome ho tradito il fiore per farne 1 parola […] com’è difficile essere libri e nel contempo liberi […] in fin dei conti non ha fretta l’uno che ci aspetta”.

 

C’è un ordine recondito e assoluto nella poesia e nel mondo, che è lo stesso dei numeri e della geometria di Archimede, come se al poeta spetti il compito di ridare senso autentico, matematico, alla realtà, poiché la parola è il mondo e il mondo è parola, e in quanto tali il cosmo e il verbo sono in armonia, sono numero, ordine, sono uno. L’ordine del dettato di Angiuli, ancora una volta come nei suoi lavori più recenti, si trova anche nella struttura grafica, ritmica e fonetica (più che metrica) dei testi, poiché l’architettura matematicamente ordinata del linguaggio è metafora dell’architettura matematicamente ordinata del cosmo. Questa addizione tra la parola (e il suo opposto, il silenzio) e il mondo ha come risultato l’uno, l’uno autentico di cui sono parte indivisibile parola e natura. È questo probabilmente il libro più filosofico del corpus angiuliano. Anche in questa raccolta emerge l’anti-umanesimo di Angiuli, perché l’uomo è solo una parte infinitamente piccola del mondo-uno, e allora non è nelle vicende umane che si deve riversare l’attenzione dell’uomo stesso, comecomanda la cultura antropocentrica occidentale e cristiana in particolare. La presa di coscienza che il fallimento dell’uomo è nel ripiegarsi su se stesso emerge anche nelle liriche più private (spiazzanti per chi ha familiarità con la vicenda letteraria del poeta pugliese) di Angiuli, perché “non potevo sapere che si muore da vivi e si vive da morti […] per stipare quella minuscola eternità degli umani”.

Anche la passione quasi ossessiva di Angiuli per la natura, per il mondo vegetale in particolare, ha una spiegazione etica profonda, perché occorre “trapassare dalla carne al verde che vuole giustizia / […] allora io corteggio la zucchina vergine in calore / allora io scrivo pure per l’animella del cetriolo / lo preferisco al canto funebre del callo sinistro / lo preferisco al canto funebre del callo sinistro / che allaga ancora quasi tutti i fogli del presente”. Angiuli canta la resistenza della bellezza del mondo naturale contro l’egocentrismo distruttivo dell’essere umano. Bisogna saper perdersi anche nella contemplazione pura per capire come infinita sia la realtà, ed estremamente parziale e limitato sia il mondo umano, così “che pure il cuor si può agglicinare ad una ringhiera”. Angiulipropone una pace nuova, che non sia un’operazione di semplice nostalgia per il mondo precapitalistico, ma una leopardiana presa di consapevolezza che parte dall’individuo per guardare al futuro: “perciò penso che la pace sta sulla strada del ritorno / dove avantieri può combaciare bene con domani”. Perché se l’umanità spostasse il baricentro delle parole, delle azioni, della storia, dal proprio ombelico al cosmo, se, per citare Archimede, l’umanità “trascendesse le proprio limitazioni” (transire suum pectus), si renderebbe conto che esistono infiniti modi e inesplorati per essere dignitosamente parte del creato e, anche oltre la morte, dare parola al creato.

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