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Montorfano | House by the railroad

Una banda marrone ci ostruisce la vista; un’erta frustrante che bisogna scalare con sudore per vedere l’ingresso della casa senza sapere se ne saremo felici o se invece scopriremo con un nodo alla gola ciò che disse Proust: oblio e distruzione fanno parte del tempo.

Poi il nero premuto contro i vetri, dall’interno.
Ombre rintanate sotto il colonnato si agitano, salgono fino agli angoli del tetto costruendo una nuova collezione di soglie. E la casa si impone.
Abitata o assente, arriva quasi a sentire incendi, lampi, crolli. Forse addirittura un vociare sottile, rantoli, passi di scarponi sulle assi usurate. E più la guardiamo, più assorbe lo spazio. Mescola con le stesse parole l’impronta del “lasciar morire” alla simmetria cristallina della prudenza, del “mettersi in guardia”. Passa dal primo piano allo sfondo con velocità. Accresce il suo volume fino al limite del quadro. Ci trafigge e poi entra in ritirata. Si rimpicciolisce. Diventa la stessa polvere sospesa nell’aria che la luce incendia.
Anche quel poco di azzurro nell’angolo destro in alto, a mano a mano che lo fissiamo, diventa un mare rabbioso gonfio d’acredine. E quando proviamo a ritrovare la nostra libertà scostando gli occhi dal suo astio, muta ritirandosi in risacca, lasciando su ciò che ha toccato un’accoglienza delicata che la anima di brusii, di riflessi sospesi tra il fondo crudo che la sorregge e le sue screpolature, i suoi idiomi solitari e senza parole.
Tutto è in movimento in questo quadro: il tetto che scivola verso sinistra con le sue insenature, i suoi antri tamponati dalle finestre; i binari inclinati dolcemente verso destra; i comignoli nel loro brillante arancio-rosso dove il più in vista tra poco farà collassare la falda del tetto e tutto cadrà addosso alla piccola torre, l’ago d’equilibrio di questo edificio mobile e inquieto.
Ma tutto questo muoversi, agitarsi, non è forse l’indizio di una passione? Di un patire che attraversa tutti i profili dei tetti e delle finestre fino a toccare i bordi che circoscrivono il quadro? E in questo dire confidente, cosa ci sta narrando questa casa che ha distrutto tutto, anche la sua stessa morte e che non attenuandosi continua a chiamare, a intessere legami tutti lacerati come se ammancasse d’amore? E proprio sul crinale di questo Pathos, non c’è forse un fraseggio, un chiaroscuro sulla tela che continua a fuggire, a sfuggirci proprio perché è perfettamente immerso nel suo agire assegnato? Servirebbe un’interrogazione che la possa aprire da dentro, che scuota le sue stesse scosse così da pacificarle, restituirle alla mansuetudine degli edifici che passano di mano in mano resistendo ai secoli, trionfando sui loro padroni. Allora inizio a convocare l’autentico e l’inautentico, e attraverso i binari. Aspetto per giorni un treno che non passerà.

Costruisco del freddo. Lo faccio scendere sulla pelle. Tremante, raggiungerò la porta ed entrerò. Mi guarderò intorno con la stessa impazienza che usiamo per cercare la costa di un libro che ci ha cresciuti tra le stanze della nostra casa e, seguendo questo docile gioco delle entrature, scort erò questa verità sorda alle riflessioni e scoprirò che l’interno non è nient’altro che un cumolo di caolino denso e bianco che non ci permette di respirare e le pareti della casa sono semplici assi inchiodate, le une sulle altre, sorrette da bastoni, da una palizzata intricata e confusa. Non c’è nulla di essenziale al suo interno; niente di conservato né di abbandonato su qualche mobilio, nessun altro con cui trovare “il momento della mia propria sussistenza”- direbbe Hegel.

Così uscirò sotto il porticato e sentirò finalmente un bel vento caldo sulle mani e inizierò ad attraversare il cortile tutto lampi e acqua corrente. Mi siederò sui binari e penserò che questa casa, a furia di guardarla negli anni, l’ho fatta diventare semplice materia della Storia, pura merce, un solido senza più il logorio del mondo.

Come fosse incisa su un nastro magnetico riavvolgo la storia, torno indietro. Alla ripetitività del mio sguardo, alla tumescenza del mio cristallino, oppongo una delicata omissione come un evento nell’evento. Ritorno a guardare la casa, solo la casa. La sfilo delicatamente dal cielo, dai binari, da quell’erta che sembra una trincea con il suo accumulo di sudore, di stanchezza e di lacrime.

In piedi di fronte al quadro vedo la facciata sotto il sole che marca il suo bordo in un atto radicale dividendo in due la forma dell’edificio. Sinistra e destra. Nient’altro. La prima pesante, crudele nella sua chiarezza, l’altra un crittogramma di arcaismi, di splendori celati, passioni circondate dal disordine che rende tutto tortuoso. Due polarità che si contendono un profilo affilato come fosse un segreto da espropriare e di cui appropriarsi; un terzo termine che inventa un nuovo spazio impossibile da aggirare e che subito dispone una nuova drammaturgia del segno con le sue distanze, i suoi profili, tutta la sua difficoltà nel farsi toccare. Un profilo, uno spigolo, un luogo tagliente che se da un lato del proprio carattere respinge le due superfici attigue ferendo il reticolo della loro materia, la loro area onesta e decisa, dall’altro le richiama con la sua aderenza, le seduce come qualcosa di buio, di riprovevole, di losco, offrendo il proprio bordo utile come spazio sopra il quale unirsi, scontrarsi, diventare un urto fecondo. Ecco allora che il bordo tagliente è una cerniera grazie alla quale le due superfici, le due facciate possono continuare perdutamente a mettere in campo il loro fraseggio, la loro commedia amorosa di scambi, furti, malintesi; un gioco che è giocare a rappresentare il pericolo e che, fedele alla sua durezza, al suo spettacolo esitato, tarda a mostrarsi facendo tardare anche noi ad accorgercene, a preoccuparcene, a prendercene cura.

È il gioco di tutta la nudità del pericolo, l’incanto del proprio essere in pericolo affinché il timore dell’orrore costruisca sotterfugi, prolungamenti, ponti avvolti dalla nebbia così da confonderne i contorni, le possibilità di fuga, di sicurezza.

Questo il gioco muto e trasparente del quadro, l’attesa spasmodica della catastrofe che sta per venire e il suo continuo aggrapparsi alla vita nel tumulto scatenato. Una stanchezza che penetra nel nostro petto, azzurra e profonda, che non mostra nulla, non oppone nulla e che dice imponendo la sua tempesta: “Voi siete questo.”


Painting by Edward Hopper | “House by the Railroad” | 1925. Olio su tela. 61 x 73,7 cm. New York, The Museum of Modern Art, donazione anonima.

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