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Saracino | 31 dicembre

Esiste un 31 dicembre solitario, una data imperfetta, asincrona, che cade dai calendari, discende perpetua nel movimento, affonda nella coltre della notte siderale, nel silenzio delle radure, degli appuntamenti mancati, dei vuoti luoghi di lavoro, delle sabbie mobili della nostalgia, del coltello afflitto della domenica. Esiste il 31 dicembre della persuasione di essere vivi, malgrado le resistenze del tempo, i piccoli segnali che dalla costa arrivano, mentre l’onda rinforza e una lancetta diversa sopravviene, si inarca, si china su di noi, continua a scivolare in fondo al pomeriggio antecedente, che intanto si ricrea in una luce figliata dai luoghi della memoria.

Esistono il rintocco sui battenti della casa dell’infanzia, e poi il resto del giorno, che passa veloce nell’erba brinata o in qualche scampolo di credenza della nonna dove per sempre restiamo in effigie.

E malgrado il 31 sia un termine, in realtà, come tutti gli atti finali, non definisce e non evidenzia nulla, anzi si flette in un gesto di estremizzazione. E proprio dalla sua costante caduta prende sembianza la parola cambiamento.
Forse ha le forme di una litoranea deserta. O di una contrada di paese. Uniche luci: quelle baluginanti da una vecchia balera kitsch in cui tutto fila liscio. I tintinnanti calici, i lustrini finto oro e argento sui vestiti degli ospiti, una malinconia talmente densa da fondersi nella gioia.
E in questo stato di grazia, il pacifico sottofondo di una canzone che da bambini, una volta, conoscevamo a memoria.


Photo by Ian Schneider

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