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Saracino | I fitti sentieri della grazia

La circoscritta forma di ogni addio avvolge il passato, e lo reitera. Quel passato imminente che recita Carlos Barral, poeta spagnolo, come una salmodia nella mia mente di lettrice distratta e sentimentale. Perchè anche tentare di dire l’addio è una passione ossuta e scalmanata, divisa tra l’agone di consumare la ricerca nello sforzo di un significato e la selvaggia inclinazione a non trovarne. Manuel Vilas, nel suo recente Ordesa (edito in Italia da Guanda col titolo: “In tutto c’è stata bellezza”) sviscera pagine e pagine intorno al tema del congedo definitivo. Il suo riguarda i genitori, il primo degli addii più irredenti. Cosa c’entri dire addio ai genitori è una intromissione troppo seria per non soffermarsi ora a parlarne, a raccontarne.

Il padre, la madre. Non solo coloro che ci corrispondono poiché generatori della nostra esistenza, ma qualcosa in più – qualcosa di meno. Il padre che siamo noi stessi, osservando il nostro. Lui che riflette in noi la virilità dell’averci reso figli e padri di nuovi figli, in un parterre di generazioni che si aggrovigliano e si perpetuano nella fine di ogni cosa. La madre che siamo noi stessi, osservando la nostra. Lei che ci riconduce alla devozione per il dolore, poiché custodire la vita in un grembo e farla poi venire alla luce è esattamente affratellarsi a una pena destinale: tuo figlio sarà esposto tanto alla vita quanto alla morte e pertanto nessuno potrà ammansirne il futuro. Ritornando a Ordesa, questo capolavoro di Manuel Vilas che sottolineo e rimesto, amando dal fondo della compassione uno scrittore di cui fino a poco fa ignoravo l’esistenza, dico che il vero seme dell’addio nasce dai nostri genitori, insomma da chi, colpevole dell’averci messo al mondo, poi ci ama di una morte che quotidianamente instilla nella vita la firma della fine. Eppure, quante volte ci siamo fermati a ripensare a nostro padre, giovane, molto tempo prima che ci concepisse, sperduto su una riviera, attirato dal vento, nelle ore colme di una felicità inarrivabile? O nostra madre, arresa alla tenerezza, sola come un angelo, indifesa nel deserto di una strada, mentre rincasa per cercare rifugio nella sua stanza di ragazza? Veniamo al mondo preceduti da una lunga sequenza di addii che si inanellano nei sentieri fitti della grazia.

Perchè infine, questo pare voglia dire Ordesa: solo l’eleganza di un tocco più sottile e acuto può giustificare il mistero, l’enigma, la follia della vita, della morte.

Cos’è il tocco sottile, la carezza sulla fredda guancia della rovina, di cui scrive Vilas, smembrando passo dopo passo il cuore di quel lettore che manifesti con lui e traverso di lui la stessa affine ammissione di bene sconsiderato verso i propri genitori? Forse, la leggerezza della consapevolezza. Nasciamo improvvisamente, dal buco oscuro dell’inconsistente. Veniamo al mondo per una ventura del giorno, il quale in una certa ora e in una certa data, alla parete del calendario della sorte, decide che siamo noi a incarnarci e non un’altra persona e che a precederci saranno due creature mai viste, mai previste, non del tutto segrete alla rosa del tempo, già consumate da un carico di anni vissuti: nostro padre e nostra madre.

 

 

Dovremo passare con loro, se la trama degli eventi regge, un certo peso di mesi ed anni, ore irriformabili. E il loro sacco di tolleranza nei nostri confronti sarà impossibile da contenere perché a renderlo più pesante saranno le passioni dismesse, le parole non dette, le confidenze violate, le rabbie estinte, i fallimenti riemersi nella veste dei rimpianti, i perdoni senza voce. Poi, si tratterà di continuare a vederli dall’interstizio di una manciata di tempo, dove invecchieranno rapidamente, e noi con loro.

E’ così che le storie familiari si perdono. Trite e contrite sui muri intiepiditi, le genealogie somigliano ai rami secchi sfrondati dalla paura.

Eppure, in questa catastrofe inimmaginabile esistono una partecipazione ed una clemenza che sono anche una elargizione della levità. Diciamo addio a chi amiamo e ai nostri genitori ogni giorno. Ma in questa intraducibile ovvietà di tragedia che è lo sparire può animarsi il prodigio di ogni mancanza di senso, che è forse il vero interprete di tutto. La mancanza di senso contiene la pienezza di ogni significato. Ed è il paradossale incipit di ogni amore, di ogni etica del sentimento, di ogni compartecipazione alla vita e al perdono.

Perché amare la storia della propria famiglia è anche rabbonire il tempo, farne i conti tornando alla calma, alla clemenza, a un orizzonte di umiltà e di pace, che è l’abbandono alla constatazione della comune condizione umana. Dove sono davvero nostro padre e nostra madre? Dove dormono le illusioni di rivederli come da sempre abbiamo creduto che fossero e dove, invece, si scolpisce la chiara materia della loro esistenza? Nei limiti della nostra mente o nel viaggio delle vite che vorremmo rifabbricare per loro? Dove riposano le riproduzioni di un padre e di una madre che, morti da anni, non rivedremo più? Le storie familiari, insieme ai loro album decadenti che imprimono nei fotogrammi la lacrima di un lascito, sono la prima porta da cui rientrare per pensare al genere umano con dolcezza, senza sfrontate scaltrezze, con la sola bontà di una gratitudine che finisce per essere l’unica e più vera consolazione.

 


Photo by Jeff Hopper

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