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Saracino | Il mare aperto del levare

Leggendo le poesie di Alessandro Celani, prematuramente mancato al mondo, si ha la percezione di attraversare il tempo, esattamente come si fa per un fiume, da una sponda all’altra, guadando lentamente col gusto lieve e dolce di veder comparire sull’acqua i piccoli segni del movimento. E questo tempo, dotato di profondità, infierisce sui fondali, insabbiati e grassi, elevati a piana oscura oppure a un languore di vita che sciama nella corrente. Un fiume simbolico che scorre tra i nomi, le generazioni, il passato e le sue chiaroveggenze appena annunciate. Un fiume fluente tra le città, le case, la vegetazione inabitata, i volti pallidi, i fotogrammi, le evoluzioni delle età, una sorta di albo naturale che registra il vivo e il morto, il dialogo e la mutezza, il sintomo per la vita e la delicatissima foce della rovina.

Alcuni poeti hanno passione per le cose. Animate o inanimate che siano, il loro è un inventario frontale ed ostinato, che consegna il linguaggio ad essere talvolta una pratica d’archivio caparbia, senza mediazioni. In Celani ciò è evidente. Il pulviscolo della storia è ovunque.

Si insinua tra le carte e i sogni, insegue e patisce insieme alle persone amate. Ha la forma di un dolore spezzato, cangiante, in cui si frappongono eventi autobiografici mai esclusivi ma sempre circondati dalla presenza degli affetti. Dove sono le passioni terrestri, dove vince il segno che nulla andrà mai perduto? Nella parola, forse; nella poesia, canto di resistenza. In questo senso, il suo fiume, così marcatamente destinato al mare, continua a evadere dalle facili direzioni e diventa la traccia di un paesaggio acronico e primitivo, dove universalmente e ciclicamente i morsi del mistero della vita ritornano e assumono le sembianze del mito, dell’eterno desiderio di doversi donare una risposta. Su tutto, l’idea che la sofferenza travalichi i secoli e da sempre influisca col suo marchio mai immutato di destino essenziale ed inevitabile. Tuttavia, dalla cenere di quel che resta, dal pianto immodificabile, è possibile osservare come entri dappertutto la grazia del sentimento, persino là dove non possiamo indugiare, tra le feroci elementari scorze della morte. E la morte, in questi testi, albeggia crescente, come un patrimonio rosso fuoco ed ineludibile; come una metafora che segna e connota il generale consenso alla vita, al mare aperto del levare, all’essere in ogni ora, in ogni tempo, degni e vivi.

 

Così dopo anni
qualcosa appare nell’anima
Una tiepida ombra di bacche
una pena d’amore o come
il suo colore solo
Solo il bianco ecco
ti tiene legata alla notte
in attesa – Saffo – tu che fuggivi

*

Notte che mi guardi con sguardo di ragazzo
dimmi qual è l’occhio che uccide
e quale che rende immortali
Vieni bagnati con me
ché io sappia che non menti

*

Osservi la vita fluire
ad anse che si piegano ai tuoni
quasi che fossero l’ultimo mare
e non sono
Il passato si versa negli occhi
dei figli che pure ti guardano
con l’attonita brama
di chi è ancora del buio
Sei stanco e nulla vorresti
se non la canzone d’amore
la lieve carezza da nulla
più lieve dell’inavvertito insetto
del granello in volo negli spazi di luce
fra una finestra e la notte

*

Non era la poesia
che una tua resistenza al dolore
un tuo sogno di uomini e di donne
deposti fra le nuvole
come angeli di Luca Signorelli
Soprattutto in autunno
quando l’anima presenta il conto
tu che pensavi di non avere un’anima
È allora che tieni il verso tra i denti
la spugna intinta due volte nel vento
Nello sguardo parole cancellate
i molti indesiderati desideri di te
che scorgesti chissà dove
quando in principio
ti affacciasti al mondo

*

Qualcosa di tragico accade nei campi
per questo li amiamo
quando stesi fra le margherite
col sorriso di Grecia
minuscole morti ci interrogano
L’ape scampata ultima del regno
ricorda come sfiorò le tue ciglia
distogliendo da noi l’apparenza di morte
l’odore anfibio delle mucose
e come milioni di anni fa
uscimmo dalle acque

*

Non hai scelto la poesia
per le metafore
ricorda
ma per amare l’uomo che le ignora
per pietà di colui che ti disprezza
in oltraggio alla tua specie diversa
fragile discendenza in estinzione
A lui devi la tua parola
il tuo verso di poeta
e di bestia

*

Di certo si trovano in natura
metafore di noi
Anche quei monti rosa e azzurri
pieni di piccole morti
cercano fra gli uomini
Vieni qui facciamoci vedere

*

Vi vedo gioire dal mondo dei morti
intenti alle cose incompiute del sabato
alla vostra incantevole gioia del nulla
(beatitudine del vivere in fotografia)
Dimenticatemi perché non fui tra voi
(per questo fui taciturno)
Vi osservo dagli elementi a cui feci ritorno
Il mio fegato cresce nei boschi
fungo dal dorso lucente
Il mio occhio si moltiplica nel mare
murena color magenta
Io vi chiamo luci del mio esilio
sagome bianche
nella polvere vi attendo


Da “Apocalisse e altre visioni” di Alessandro Celani | Aguaplano | 2021

Image courtesy of Sante Castignani

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