Saracino | Il viaggio dell’appassire
Ci sono vari tipi di viaggio. La parola stessa, in quanto a emanazione di suggestioni, ne suggerisce di infiniti. Il nome, già in sé, si qualifica nel senso eccedente del contenuto che serba. Eppure, sforzandosi di farsi strada nella moltitudine, ad emergere sono i viaggi più inviolati; quelli che restano nel sottoscala, accatastati nella blanda ombra della realtà, a pochi metri dal cielo che sta sotto i nostri piedi e che, capovolto, rigira la sfera dei sogni, facendone cadere, morbidamente, il ricordo.
Ci sono i viaggi da una stanza all’altra della casa, dove minimi passi calpestano il pavimento come una parola gentile da esplorare nel dialogo intimo di chi lì abita.
Ci sono i viaggi nella camera dei balocchi, dove una volta il piccolo Baudelaire, condotto da un’amica di famiglia, fu spinto dolcemente a scegliere, tra i tanti, un giocattolo da portarsi a casa. Poi esistono i viaggi sugli scrittoi, legnosi e odorosi – di mughetto selvatico quello di Emily Dickinson – dove alla veglia perfetta di una luce si estingue ogni banale pretesa sulla vita e si arriva a capire che è destino non accumulare alcuna certezza. C’è la casa di villeggiatura di Guido Gozzano, dove il viaggio “verso la cruna del mondo” sta nella collezione di farfalle del poeta o nella promiscuità degli oggetti in bella posa, corredo funereo e aggraziato di un disperato amore per la vita.
Ecco, è nel contrasto che scorgo il vero viaggio: nell’andare incontro a un indiretto bisogno di arretrare, ritrarsi indietro “indietro” fin nelle viscere della nascita-morte che sorprende – ancora – chi non ha paura di perdere una parte consistente di sé.
È allora che il viaggio acquista un senso diverso, finalmente libero e fedele. Non è più il viaggio pavoneggiato da chi si compiace di conoscere il mondo. Conoscere, poi, “cosa” davvero? Siamo certi che sia dei giramondo il governo della consapevolezza? Molti limiti sono “fuori luogo”, ovvero chiedono esplicitamente di non essere superati. Ci sono delle soglie, anche culturali e sociali, da non valicare: linee che congiungono e disegnano forme privatissime, incalcolabilmente pudiche, dove tremore e rispetto si adornano e tacciono. Anche questa è un’avventura dello sguardo. Le fiabe ci ammoniscono, in questo senso. Nelle fiabe della tradizione al protagonista sono precluse alcune cose: ci sono dei limiti, violarli significa optare per la rovina. Cercare di oltrepassarli, scegliendo un passo superbo o fintamente umile, è tracotanza che va punita.
E non sempre il limite è oltraggio alla libertà. Spesso, è dono. In poesia, la fine di un verso “accade” perché discende la giustizia che restituisce al silenzio la misura della visione. La voce giustamente si ferma, sincrona alla scena che il sentimento poetico evoca. Il vero poeta può tacere, perché il verso ha consumato il viaggio e deve fermarsi. È in ogni viaggio (che sia davvero profondo e non orchestrato dalla menzognera vanità) un fondo di finale appassimento. Anzi è dell’appassire, come per i fiori e la natura, il vero stato del moto delle cose che poi, ruotando, giungono fin dentro di noi, nell’anima speciale e duttile a cui diamo forma e tono traverso parole e gesti. Non esiste viaggio superiore a questo appassire che cresce giorno dopo giorno, che ci insegna la misura e il confine di certi germogli che non chiedono affatto di essere colti né tantomeno coltivati.
Photo by Nick Fewings