Saracino | Io, solo, ti guardo
Certe volte, penso
al piacere da dove
sono nati i miei figli.
E mi chiedo se non è stato solo
del puro odio verso il male.
Ma vengono da lì,
e non verrà più nessuno.
Ignoro se, come si sono difesi
per non stare tra noi.
Se hanno resistito
a me, alla madre, all’universo,
quanto a lungo.
Questi versi appartengono a un grande poeta italiano contemporaneo: Mario Santagostini. Li ricordavo a memoria, ma in una forma imperfetta (avvalendomi della convinzione, forse compiacente, che una singola opera di un autore talvolta arrivi a rappresentare tutte le sue opere, il cardine di un pensiero non più rintracciabile, una sola lirica scompaginata dal disegno impossibile della moltitudine). Di certo, l’imprecisione del ricordo non ne rovinava l’essenziale tema di tragica e al contempo innocente schiettezza: figli come controcanto all’angoscia, alla pena, all’inesorabile.
Certamente versi che lasciano filtrare un’aria di lotta, un’estasi oppositiva, un movimento e il suo corrispettivo più refrattario, insorgente. Come se
far figli coincidesse col piacere di infliggere una punizione al male e, insieme, di odiare, in modo pulito, assoluto, il male stesso.
Forse, per alcuni, fuor di retorica e fuori da ogni incantamento affettato, generare significa proprio questo: in somma misura, affidarsi a una reazione di totale abolizione del male, incondizionato e altissimo gesto di disposizione verso la purezza di un atto; paradossale ed oscura attenzione, insomma, per la vita. Ugualmente fatale, l’interrogazione che ci porta nelle retrovie: come sarebbe stato il figlio che non si è mai avuto?
Un altro importante poeta, Dario Bellezza, scrisse una poesia (poi letta in occasione della serata al Premio Città di Recanati; ne esiste, a testimonianza, un vecchio e meraviglioso video in rete) in cui si rivolge al figlio mai concepito. Una poesia rilucente di malinconia, che evidenzia senza ombra di dubbio una comunicazione segreta, ma non realizzabile: quella con l’immagine del proprio figlio mai nato, cresciuto nella voce della figura del cuore di chi, solamente, resta l’artefice di non averlo generato.
Un autore in potenza (massimamente autore, forse) nel buio del destinatario e del suo paese natale recondito.
Entrambe le poesie indicano un non luogo. Ci orientano a uno spazio invalicabile, impossibile da frequentare. Quello dell’ignoto “geografico” da cui tutto potrebbe ancora essere (o sarebbe potuto essere) ma che non ha più senso considerare. Un computo infinitamente nullo, quindi mai esistente. E tuttavia, in questo stato della disattesa suggestione che niente mai accadrà, resta, paradossale e lieve, la parola poetica ad incidere una consolazione aspra ma necessaria. Una sorta di conferma che la desolazione e il dolore possono andare oltre le loro conseguenze e “provocare” la creazione.
È allora che quel non luogo si fa avventurabile, ponderabile; diventa qualcosa di somigliante al reale, analogamente abitabile. Come al termine di un lungo viaggio, quando alla riservatezza del cammino sussegue, eccedente, l’intervallo della conoscenza.
Penso che dovrei avere un figlio:
che mi guardi dal letto sfatto e sorrida
mentre ascolto una musica lontana
celestiale, di sogno… La porta
aperta sull’infinito, e un’infinita
preghiera… Calme parole
sussurrate nel vento aperto
della notte oscura. Io ti guardo,
figlio, dormiente sereno
in un tripudio colorato, mimetico
di rosse coperte, su un divano bianco
un cappelletto blu in testa
a coprire i capelli tagliati corti
come un collegiale o un militare.
Io solo, solissimo ti guardo,
figlio, non avendo doni per te
oggi che splende il tuo sedicesimo
compleanno. Non trovo
che sommesse virtù per rasserenarti
in un futuro che nessuna morte
intoccabile sfiorerà
con la sua adunca orrida mano.
Penso che dovrei avere un figlio | Dario Bellezza
Photo by Xavier Mouton Photographie