Saracino | Isole fortunate
Perché viaggiare? Forse, per scartabellare il mondo aprendolo in scenari sfogliati dalle nostre mani curiose; forse per orientarci, sulla cartina del tempo, tra quei luoghi che non conoscono intervalli di sentimento, palpitanti quanto un album vivente dei ricordi.
Jean Grenier, nel suo breve saggio, “Le isole fortunate”, lascia a proposito delle tracce, come impronte di irrisolte suggestioni.
Ci si domanda spesso perché viaggiare, scrive. Per ritrovare se stessi, probabilmente. O godere in pienezza della collana di istanti che ci vengono concessi nell’arco breve di una vita.
“Si può dunque viaggiare non per sfuggire a se stessi, cosa impossibile, ma per ritrovarsi. Il viaggio si fa allora un mezzo, simile agli esercizi corporali per Gesuiti, all’oppio per i buddisti e all’alcol per i pittori. Una volta che ce ne siamo serviti e che abbiamo raggiunto lo scopo, spingiamo col piede la scala che ci è servita a salire”.
Si viaggia per esigere una resa, probabilmente. La si chieda al corpo, la si chieda all’intelletto, poco vale. La chiave di difficoltà è intima, sfaccettata: un volto – il nostro – variegato e sublimato dalle molte sfaccettature. Da dove inizia un viaggio? Da molti anni prima (offrendo al tempo il privilegio dello spazio).
È nel pregresso il focolaio della prima avventura. Nel nostro passato assolato o doloroso. Nella radice che diventa trama e spinge la terra. È nel cielo in cui, affacciati per la prima volta a una finestra, spaziammo come uccelli in arrivo sul muro di cinta della casa; ma è anche nella disattenzione, quella dello studente anonimo e inoperoso, che si prepara alla migliore delle attenzioni possibili per quando sarà adulto.
Il viaggio, allora, è inteso davvero come mezzo, oggetto trovato per strada, prezioso anello di congiunzione tra sé e sé, infinita arma bianca, scrutatore e sguardo, l’onda di una palpebra sul dorso del mondo.
“È quindi senz’altro vero che nelle immense solitudini che un uomo deve attraversare dalla nascita alla morte, esiste qualche luogo, un istante privilegiato in cui la vista di un paese agisce su di noi, come un grande musicista su uno strumento comune che svela, con più precisione, a se stesso. Il falso riconoscimento, è il più vero di tutti: ognuno riconosce se stesso: e quando dinanzi a una città sconosciuta si resta torniti come davanti a un amico dimenticato, è l’immagine di se stessi che si contempla.”
Il viaggio, avanzando negli anni, acquista poi le forme dell’eterno dialogo con le proprie aspettative. È la sua faccia più semplice, dove rischiano di confluire le debolezze, le frustrazioni, le cadute. Eppure, scorrendovi all’interno, come in un logico filo di matassa, possiamo accorgerci di alcuni strappi, i cosiddetti scorci, i bagliori improvvisi che restituiscono alla nostra vita la grazia e la compostezza di una volta. Quando accadono, si piange. Può succedere nella piazza di un paese qualunque, all’alba incrostata di un paesaggio di mare; o in inverno, nella casa di un estraneo: improvvisamente qualcosa di remoto e familiare ci passa affianco. Talvolta, il viaggio si mimetizza nella narrativa del quotidiano, là dove si manifestano le storie più impensabili.
Un giorno assistetti personalmente a una scena curiosa: in un vicolo cieco di un paese molto piccolo, due anziani, marito e moglie, si arrabattavano traverso mille rivolte dell’ingegno per cercare di estrarre qualcosa da un tubo di plastica che fuoriusciva dal muro esterno di una casa decrepita. Presumibilmente, un guasto casalingo da risolvere. Dal mio punto di vista, dal privilegio del mio sguardo avido di nonsense, quell’uomo e quella donna erano cercatori di altre fortune. Quel condotto in cui, uno alla volta, dandosi il cambio, infilavano le mani e l’occhio scrutatore, stava generando il tema del fantastico, ovvero stava preparando per loro qualcosa di ilare e poetico da estrarre. Forse: la loro stessa anima.
È in ogni caso un fatto reale, mai dimenticato, non insolito, che il viaggio, vero, finisca nella commozione, esattamente là dove l’umanità che vestiamo aderisce alle lancette dell’orologio delle età. È il viaggio nelle isole fortunate. L’isola del proprio istante, che basta a saziare una intera esistenza.
“Un amico mi scrisse che dopo un mese di piacevole viaggio, trovandosi a Siena, entrò alle due del pomeriggio nella camera assegnatagli, quando, dalle imposte aperte, scorse uno spazio immenso in cui volteggiavano alberi, cieli, vigne e chiese, quella mirabile campagna che Siena domina dall’alto, e che gli sembrava di vedere dal buco della serratura (la sua stanza era solo un punto nero); allora, pianse. Non d’ammirazione, ma d’impotenza.”
I testi tra virgolette sono estratti da “Le isole fortunate” in “Isole”, di Jean Grenier (Mesogea 2012).
Photo by Jakob Owens