Saracino | La crepa e la luce
Quando si tenta di dare un significato plausibile alla parola perdono, la tendenza a mitizzare i discorsi e a categorizzarli in più o meno sonanti sentimentalismi è facile, a tratti persino inevitabile. Eppure, il perdono, inteso come assiduo tentativo di rileggersi entro una sfera di posizionamenti e riassestamenti nella complessità della vita, è strada insidiosa, ardente di vette e scivolamenti, una vera e propria fatica dello stare in piedi a ridosso del piccolo argine che non tiene. Probabilmente, si tratta di esprimere l’innocenza del cuore, quella che ad esempio presentono i veri poeti, assommata alla frastagliata ventura degli eventi, quando a parlare è la trafittura di una lingua benedetta. E allora, è proprio tra le spaesate consonanze di una lingua invisibile che il frammezzo del perdono ispira un altro tipo di respiro: il ritmo del movimento interiore, o la grazia che avvolge la persona colta nell’atto di perdonare; o colui che viene perdonato, senza esitazioni, nel cerchio di una vita che si riapre.
“La crepa e la luce” è il racconto di un’altra strada, quella percorsa e ripercorsa da Gemma Calabresi Milite, moglie del commissario Calabresi, scomparso tragicamente nel 1972.
Una strada imboccata da giovanissima, in preda a un lutto indicibile e all’accudimento di tre bambini rimasti senza il padre. Un cammino – che è viandanza tuttora, poiché i viaggi di ciò che è grandioso, non cessano mai – in cui la donna, tra molti ostacoli, spirito di sopportazione e squarci di meravigliosa fiducia, ha trasformato in terra morbida e abitabile lo scenario di paralisi e tristezza in cui sarebbe potuta, altrimenti, finire.
Ne La crepa e la luce non ci sono le tracce di un indirizzo ammaestrante. L’autrice non vuole insegnare alcunché né ergersi a rappresentante di un modello morale da imitare. La bellezza della sua testimonianza e del libro intero sta nella naturalezza della descrizione di ciò che, una volta caduto, è risalito: il suo stupore per la vita e la fede nella possibilità del perdono sono stati respirati dalla donna con la volontà naturale e spontanea di un desiderio di esclusiva ricostruzione verso un’idea di bene.
Cosa significa, allora, perdonare? Ripristinare la bellezza là dove non c’è stata o ha cessato di rivelarsi. Col proprio gesto di accettazione della morte accaduta, rialzare lo sguardo verso una continuità di rimescolamento della tragedia, riproporla nella chiave della sconfinata constatazione che essa non può interrompere l’amore: il buono che c’è stato, il buono che ancora ne proverrà.
Avere il coraggio di guardare a fondo ciò che è stato reciso esiste tanto quanto il futuro della rimarginazione. È nella trama del ricucito che leggiamo una possibilità altra di stare nel mondo. Osservare che l’esistenza umana può esprimersi in scorci di crudeltà e follia non ci autorizza a proclamarne l’inutilità.