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Saracino | La forma dei vivi

C’è mancato poco
che mia madre sposasse
il signor Zbigniew B. di Zdunska Wola.
E se mai fosse nata una figlia – non sarei stata io.
Forse una dotata di più memoria per volti e  nomi,
e melodie udite una volta soltanto.
Infallibile nel riconoscere ogni uccello.
Con voti eccellenti in chimica e fisica,
e più scarsi in polacco,
ma che di nascosto avrebbe scritto poesie
subito molto più interessanti delle mie.
C’è mancato poco
che mio padre intanto sposasse
la signorina Jadwiga R. di Zakopane.
E se mai fosse nata una figlia – non sarei stata io.
Forse una più ostinata nell’averla vinta.
Una che salterebbe senza paura nell’acqua fonda.
Propensa a subire le emozioni della folla.
Vista di continuo in più luoghi insieme,
ma di rado su un libro, molto spesso in cortile
a giocare a pallone con i ragazzini.
Forse si sarebbero perfino incontrate
nella stessa scuola e nella stessa classe.
Ma senza fare coppia,
nessuna parentela,
e nella foto di gruppo ben distanti.
Ragazzine, mettetevi qui
– avrebbe detto il fotografo –
quelle più basse davanti, quelle più alte dietro.
E al mio segnale fate un bel sorriso.
Ma prima contatevi,
ci siete tutte?
– Sì, signore, tutte.
“Assenza” di W. Szymborska.
Nessuno più dei poeti sa indagare, con luce propria, eccezionale, in quello spazio effuso e lacerato delle cose non ancora accadute o rimaste sulla soglia della impossibilità. In quello spazio non terreno che è il luogo indiscusso della vita solo immaginata e ricreata attraverso la lingua, potente soccorritrice e lenitrice dell’assenza.
Così, pensando a noi stessi in quanto figli di altri figli, nel mistero conturbante del venire al mondo per un caso delle prossimità, la forma esatta di noi vivi e presenti fa da contraltare all’ombra tragica della non figura che saremmo stati se gli eventi non avessero preso il corso conosciuto.
Noi presenti, noi esistenti. Per un colpo fortunoso o fatato, noi veniamo da genitori “assegnati” che avrebbero potuto, però, non incontrarsi e unirsi mai.
In quel “C’è mancato poco” della poesia di Wislawa Szymborska sorgono, come trappole mortali, tutti gli appuntamenti con la disponibilità del tempo: al suo consenso; alla sua condanna.
Accade qualcosa di misteriosamente simile nell’atto poetico. Tra verso e verso – da capo a capo – in assenza, il buio messaggio di un verso silente, di ritorno dalla morte, ma mai pronunciato.
“Quanto volli scrivere che i miei versi non dicono; quanto i miei versi dicono che non volli dire”, scrisse una volta il poeta spagnolo Pedro Gimferrer. Forse, anche la grande letteratura sta dove stanno i figli mai concepiti insieme a quel loro “momento” che non è riuscito a entrare nella vita: il momento che avrebbe potuto cambiare le carte in tavola, ricombinare gli eventi e che tuttavia in qualche modo lampeggia, come spia di soccorso, nella cortina della notte.
A volte, immagino la scrittura come un grande prodigio senza volto. Una consegna di istanti a cui piegarsi, malgrado le resistenze, e che se ne sta, crescente o abortito, a seconda delle voci che vi si intrecciano, nel ritmo sotterraneo, implicato, degli attenti: figli inermi, ma vigili.

 Photo by Fuu J

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