Saracino | La lingua del perdono
Non sempre il perdono accenna ad essere quel che di più giusto e vistoso ci aspetteremmo di cogliere dalle esperienze, individuali o meno che siano. Più frequentemente, il perdono è uno stato sospeso, oltre l’identità della soglia, di quel modo di apparire a noi stessi languido e lontano, mai riconosciuto, mai esplorato dagli altri.
Una sorta di fisionomia originaria, non intaccata, ma un qualche giorno vissuta, di soppiatto o soprassalto, arresi all’evidenza di un sentimento “eccessivo”.
Il perdono abita le terre delle fiabe e delle attese: della storie preparatorie e delle vigilie nelle terre ghiacciate, dove cristallini e all’addiaccio vivono i nostri più bei pensieri. Oppure, il perdono è un dio mansueto, creatura docile e pacifica, assorto sulle mensole delle credenze nelle case dei poeti.
Con occhi stupefatti e lucidi, osserva il fuoco schioppettare nel camino, le mani nodose di una vecchia arroventarsi nell’abbraccio impossibile del tempo; schiude la bocca per dare spazio a un bisbiglio tramontante nella cara tristezza di una cena serale.
Allora al perdono si concede un paragone di fuga o di strappo nell’aria, una sorta di apertura del mondo da quell’altro emisfero, che prosegue nelle profondità senza fine dei disegni superiori che non hanno mai raggiunto la loro destinazione. Allora al perdono si concede un paragone di movimento: un camminare supremo nelle fessure del cuore, che è sempre dimora storica dell’assenza di una storia da raccontare, poiché casa metamorfica, trepida, in incessante costruzione.
Il perdono stacca l’ordinario dalle pareti e squarcia il messaggio dell’abitudinaria lettura del mondo: c’è un movimento perduto tra forra e murro; tra forra e paesaggio; forra e volto. Ce lo ricorda il Re degli Interstizi di Fernando Pessoa:
Il Re degli Interstizi
Visse, io non so quando, forse mai –
ma il fatto è che visse – un re ignoto
il cui regno era lo strano Regno degli Interstizi.
Era signore di ciò che sta fra cosa e cosa,
Degli intraesseri, di quella nostra parte
che sta tra veglia e sonno,
tra silenzio e parola, tra noi
e la nostra coscienza di noi […]
Viviamo in tempi strani, controversi e complessi da interpretare.
Da una parte si celebra la vita in tutte le sue forme e subforme, attanagliando con malevoli assalti chi non si prepara a valorizzarla corazzandosi di tutto punto; dall’altra dilaga parallela e quasi ovunque l’idea della sua inutilità, tragicità, insensatezza e si moltiplicano le iniezioni (ideologiche) che incoraggiano a mai più riprodursi attraverso i figli. In tempi così ghettizzati da pensieri estremi, che non sono cioè ammantati dalla bontà di un ragionamento più duttile e umano sulle cose, suonano come una festa tutte quelle volte in cui un poeta dice che non è vero. Che “non è vero”. Bartolo Cattafi:
Gesto
Non è vero che non successe nulla
quando tirasti fuori la mano dalla tasca
e a braccio teso tagliasti l’aria
da sinistra a destra
dall’alto verso il basso
successe che a braccio teso
tagliasti l’aria
e ciò ebbe il suo peso
l’aria non è più come prima
è tagliata.
Esiste una lingua degli strappi e dei vuoti ch’essi aprono; una grammatica dello spazio e dei segni rimasti sulla pagina bianca delle cose che attendono a una scrittura differente, non catalogabile né asservita alle finalità più prevedibili. È quella lingua, audace e nascosta, che vive tra gli interstizi e che bisognerebbe avere il coraggio di parlare all’atto supremo delle necessità. Tra le sue dirette filiazioni, c’è il suono del perdono: la grazia di un respiro che si fa fonema e poi segno dell’intimità, del destinatario invisibile: noi stessi, il nostro appuntamento con la vita vera, il coraggio di credere che niente è inutile.
Photo by Yahor Urbanovich