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Saracino | La notte

“Che accade?
Quale paura piange 

ed è tanto scivoloso ciò che muta?”
(Kikí Dimulà)

“Notte” è una parola ricca di suggestioni ed emittenze di senso. È ambigua, nomade e, pertanto, perseguibile, vulnerabile.
Ammesso che esista una disposizione delle parole alla fragilità, a un decalogo di minacce che le penetrino e le compromettano, il termine “notte” si candida ad essere sovraesposto, per sua stessa natura.
A quale notte vogliamo riferirci? Anzitutto alla notte dell’intimità, che tenta di sbrogliare i fili mai ricomposti del bisogno e della irrimediabilità della paura. Fili che aspettano il tempo del buio per rivelarsi e che nel silenzio delle stanze da letto ci impongono di stare, sdraiati e assorti, nelle ore capovolte del pensiero, a contatto con l’istante teso tra  due nulla; a contatto con il rischio, pervasivo e sospettoso, di essere già morti in vita.
Vi è poi la notte delle relazioni e della comunicazione che le orienta. Essa passa per le vie ormai abitudinarie dei social e ottenebra sentimenti che, se vissuti di persona, probabilmente vestirebbero altri panni, forse più trasparenti e meno intransigenti. Insomma una notte impacchettata che ormai sorge nelle piazze virtuali e getta le quotidiane basi per il fraintendimento e la diffusione facile di discorsi e giudizi rispetto ai quali nessuno può veramente rispondere con argomentazioni di verità o, perlomeno, di attendibilità. È la ragione per la quale chi preferisce non darsi in pasto alla masticazione indistinta dei pareri sui social viene, molto banalmente, tacciato di viltà o qualunquismo. Queste sono le mascherate in forma di rapporti umani del contemporaneo; queste sono la rapidità, l’incuria, la tracotanza e l’alterigia che drappeggiano sul palco dell’attuale comunicazione. A cui si associa la notte della superbia di chi, mai svolgendo umilmente l’esercizio della vita quotidiana, legifera con prepotenza sugli altri e genera, con malizia e dovizia di superficialità, fraintendimenti, equivoci, confusione rispetto ad ogni ipotesi di confronto paritario e leale con chi vuole interpretare in maniera diversa la complicatissima realtà.
Non da ultima, la notte degli accadimenti mondiali, che corrono fuori controllo, che precipitano nel vortice delle infestanti guerre e che aprono ferite irrimediabili, all’ombra di informazioni distorte, contraddittorie, fuorvianti, rimbombanti.
Notte significa assenza di luce, buio, scarsità di riferimenti. Significa piangere per una mancanza acuta o, di contro, per la presenza ingombrante del dolore cieco. Significa scegliere di non rivelarsi, nascondersi, eludere i significati, portare acque sporche ad immischiarsi con altre acque sporche. Significa non avere empatia, scorrazzare nell’ottuso circuito chiuso del proprio ego, che, tra recinti e sospensioni, si alimenta della più totale assenza di immaginazione; significa trascinare, di vuoto in vuoto, l’occasione persa, il mancato appuntamento, il giorno perduto.
Eppure, la notte – in quanto principio, luogo del poetico, visione –  è stata da sempre al vaglio dei poeti, dei sognatori, degli uomini di pace. La notte stessa, di per sé, ha una primigenia ansia di vita. La riconosci nelle piccole anse del cielo, quando sta per tramontare. In certi cavi elettrici stagliati sul viola del tardo crepuscolo. Nel pomeriggio fitto dei quartieri urbani, dove il neon delle insegne annuncia ritrovi imminenti. O nelle campagne, mentre risuonano spontanee le voci lontane, i saluti degli amici, le strette di mano. Cose che possono sembrare semplicistiche riduzioni pittoresche o particolari insulsi. Ma che invece incidono e fanno una differenza. La differenza di sguardo, di opportunità e di volontà.
Kikì Dimulà, una delle più grandi poetesse del Novecento greco, scomparsa due anni fa, ha fondato sulla notte dell’anima e del rischio della rovina un capolavoro, che è stato tradotto in Italia nel 2002 con questo titolo: L’adolescenza dell’oblio (Crocetti Editore). Molte sue poesie inducono a stare nella notte della vita, a sostarvi per riemergerne prima o dopo, passando per la forra, la fessura interstiziale che dà respiro e contezza di libertà, a patto però di voler dare alle parole lo spessore che meritano; a patto di volersi mettere in discussione condividendo insieme agli altri le scomodità e gli aspetti più deficitari della comune condizione umana.

Pianto universale

Che accade?
E quale secolare ostilità lo separa
da ciò che non accade?
Vuota fino all’asfissia la sala.
Nessuno risponderà?

Preparo un lungo viaggio.
Con gli stessi gesti di
quando si resta.
Vado verso il mio profondo, lontano                                                [cambiamento.

Che accade?
Quale paura piange
ed è tanto scivoloso ciò che muta?
Avevo tante paia di occhi
per lontano per vicino
per dentro per fuori
per cosí per cosà
per questo per quello
per alto per basso
per le eclissi di persone
per la fase calante e crescente dei                                      [fenomeni in genere
tante paia di occhi
e quale cleptomane maturità li ha presi
lasciandomene soltanto un paio
per vedere quel che mi viene rubato.
Preparano una grande anfora le ceneri.

Preparo un lungo viaggio.
Con gli stessi gesti di
quando si resta.
Vado verso il mio profondo, lontano                                                [cambiamento.

Che accade?
A quale stasi di vita
inneggiano tante salve di silenzi?
Quali occhi di un Fatto Compiuto hanno                                                             [pianto
ed è tanto scivoloso ciò che cambia?
Quale Fine ha avuto il coraggio
di dire in faccia all’Inizio ‘non ti conosco’?
Preparano una grande anfora le ceneri.

Preparo un lungo viaggio.
Con gli stessi gesti di
quando si resta,
o come quando si resta
con gli stessi gesti di quando si parte.
Vado verso il mio profondo, lontano                                                 [cambiamento.

Che accade?
Un ritardo sì è innamorato della Puntualità
e lei lo respinge:
lasciami in pace brutto vecchiaccio.
Puntualità brutta sgualdrina, Tempo

                                            [figlio viziato.

Farò in tempo ad arrivare
puntuale al mio lontano cambiamento?
Quale paura piange
e sono bagnati fradici
i “quanta strada ancora” e “dove vado”?
E quando arrivo là
quante cose dovranno ancora morire,
quali salve inneggeranno ai silenzi
e quante altre ne sentirò ancora
e cos’altro mi aspetterà
per ricominciare
per viaggiare senza sosta
nel mio sempre più profondo
e lontano cambiamento?

Ho finito.
Mi tolgo il mio unico paio di occhi
e mi inchino.
Vuota fino all’asfissia la sala piange.
Un pianto universale!

 


Photo by Priscilla Du Preez

 

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