Saracino | L’assente e il segreto
Ogni segreto porta con sé il turbamento dell’irreparabile. Finché alla parola è concesso di viaggiare sulla rotta del non detto, il taciuto è forma di pace, integrità; domicilio e resa. Ciò che fuoriesce, invece, dalle sorti del rifugio è già il segreto in decomposizione, la fine della stasi, l’inizio della rivelazione.
Tra queste lande disperatamente duali e affratellate da un destino di soglia – il tacere e il rivelare – si frappone quel che i veri poeti visitano spesso: il luogo dell’intervallo. Esattamente lo stesso spazio che, più tardi, i veri lettori penetreranno, ri-creando la loro invocazione alla vita.
Il lavoro poetico è segreto, pertanto. Di intervallo in intervallo, di soglia in soglia – direbbe Celan – esso enumera le scorte di ‘non’ tempo della vita e le incastona come in un raro monile. È in quel margine di inattività del linguaggio, in quella quiescente stasi, che la poesia trova volto, verità, disciplina.
Quanto volli dire che i miei versi non dicono. Quanto i miei versi dicono che non saprei dire. Cito a memoria da una lirica dello spagnolo Pedro Gimferrer.
Nel mezzo della finitudine delle parole pronunciate, s’aprono i segmenti aperti e incontrollabili della sconfinata chiarezza di un disegno segreto: l’impossibilità a dire, a nominare, a classificare o a localizzare. Il mondo è lontano e insieme vicino, all’apparire della poesia. Si distanzia, invece, nell’avvilimento delle parole logorate dal quotidiano. Il linguaggio lirico appartiene ad altre volontà: esattamente a quelle che non sono attribuibili alla compiacenza della cultura. Il volere poetico è un concorso di sensi che consegue alla vita stessa nel suo manifestarsi senza violazioni. Nel lavoro poetico non servono le cifre di una somma addomesticata dallo studio. L’intelletto è un dettaglio. Occorrono il coraggio di mettersi da parte e l’umiltà per sottostare ad altre intenzioni.
Perché quell’andare a capo delle liriche? Per tendere la mano alla solitudine del non dicibile; affinché tra un verso e l’altro, tra un caposaldo e l’altro del segno grafico, si faccia chiaro il destino degli esseri umani: dover accompagnare, come un fuoco aurorale, la sorte del proprio segreto.
È la ragione per cui di un poeta amiamo il ‘mancante’ che ha detto. Ci teniamo saldi a quell’assente del suo eterno pre-sentire, rinverdito come un’opera incompiuta dalla sua stessa ammissione di colpevolezza e finitezza. In quell’assente che è luogo unicamente d’amore si enumerano i giorni e l’età della vita. Ciò che ‘viene meno’ è la vera felicità.
Je dis: une fleur! “Io dico: un fiore! e, al di fuori dell’oblio dove la mia voce confina tutti i contorni, come qualcosa d’altro dei calici noti, si leva musicalmente, idea pura e soave, l’assente da ogni bouquet.”
Una nascita dell’assente: in questo punto estremo Mallarmé conduce l’antica mimesis. La voce del poeta apre un varco tra l’oblio, dove le cose piegano silenziosamente le loro forme, e quella zona dell’ignoto sulla cui terra fiorisce il nuovo fiore. […]
La nascita dell’assente è anche una remunerazione, una reintegrazione: il nuovo fiore è quello che manca in tutti i bouquets.
(Testo in calce tratta da Antonio Prete, Prosodia della natura. Frammenti di una fisica poetica.)
Foto di Andrew Small