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Saracino | Un prete normale

Esistono dei luoghi che non esprimono clamore, che non suscitano richiami mediatici e artefatti. Spesso, sono incastonati nella bellezza inattuale dei paesi della provincia italiana, dove il più delle volte si incontrano le persone e le idee migliori. È il caso di un centro religioso di aggregazione, a Carate Brianza, L’Agorà, che fino a pochi giorni fa ha ospitato una piccola esposizione dedicata alla figura di Don Pino Puglisi.
La mostra si è iscritta in un percorso che si è svolto nella prima parte di settembre e che ha presentato la figura del parroco ripercorrendone la biografia, la storia pubblica, il dramma della scomparsa, il ricordo, netto e lindo, delle sue azioni: la memoria che ne è venuta, espressione di una vita destinata eccezionalmente alla costruzione di una visione di bene. Don Pino Puglisi era nato nel 1937 nel quartiere palermitano di Brancaccio. È stato ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993, giorno del suo compleanno. Non ci soffermeremo sulle controverse, dolorose e complicate trame delle cronache di quegli anni, già note, più o meno incisivamente, alla coscienza della storia nazionale.
Rallenteremo, invece, riflettendo sulla condizione della straordinarietà: quel manto della meraviglia che, quasi sempre, decide di ricoprire i panni delle persone più insospettabili per squarciare il buio dell’esistenza. Don Pino era un prete “normale”. Proprio per questo, era anche straordinario. La sua normalità consisteva nell’essere sé stesso e nel frattempo essere “insieme agli altri”. Addizione non semplice, per quanto appaia scontata e, forse, facile. Eppure, uscire da sé per destinarsi alla vita e, al contempo, donarsi è un’opera di grandezza che si costruisce gradualmente, a fatica, giorno dopo giorno, nella maturazione silenziosa delle età, in quelle righe loquaci del silenzio, nella gioventù acerba delle prime ore della vita, quando nasce il miracolo irrinunciabile della propria chiamata, o vocazione.
La vocazione di Don Pino Puglisi era rivolta alla fede cristiana, all’insegnamento e all’educazione dei più giovani. Soprattutto: alla coltivazione della lealtà attraverso la pratica giornaliera dell’evangelizzazione e del lavoro sollecito verso il proprio ufficio sacerdotale.
Dall’esperienze come cappellano di un collegio di orfani a Mondello, passando per l’impegno pastorale a Godrano, paese che grazie a lui ritrovò pace e armonia a seguito di lotte tra famiglie mafiose, la presenza luminosa di Don Pino Puglisi si espresse compiutamente a Brancaccio, quando tra il 1978 e il 1993 gli fu affidata la parrocchia di San Gaetano. È lì che la sua presenza lasciò il segno di una testimonianza oggi inevitabilmente legata alla memoria storica. Contestualmente alla  fondazione del Centro di Accoglienza Padre Nostro, alle menzogne e alle meschinità di una realtà sociale attanagliata dalla mafia Padre Pino Puglisi rispondeva con la grazia della fede e con la coscienza umana della vocazione. Senza evidenze di posa né echi di vanto, si circondava dei bambini e dei ragazzini di Brancaccio: li accoglieva, senza distinzione di ordine sociale, li toglieva dalla strada e dalle promesse della criminalità, giocava con loro, li intratteneva, li portava in gita a vedere per la prima volta il mare o la montagna; li iniziava alla convivenza cristiana e civile, mostrava loro il senso di comunità, li saldava nel tepore dell’amicizia, della gioia di spartire. Li metteva, insomma, nella condizione di riconoscersi come esseri pensanti, deputati a una meta desiderabile o percorribile, potenzialmente prossimi a diventare liberi e felici. E non è forse questo il senso, cristiano o meno, del venire al mondo? Industriarsi per il bene di chi si ha intorno, esponendosi alla vita scomoda, sofferta, impastata di difficoltà che pure, tra le forre e gli interstizi, può contenere le tracce di una inviolata bellezza.
Quando è stato ucciso dalla mafia, Don Pino, pare se l’aspettasse. Dopo la strage di Capaci e Via D’Amelio, era stato minacciato con maggiore determinazione; reiterati soprusi e intimidazioni avevano cercato di porre fine alla sua prodigalità sacerdotale. Eppure lui era un indefesso “rompiscatole”, come amava definirsi con i suoi alunni. Rompeva le scatole o erompeva dai confini precostituiti della prepotenza. Sconfinava. A suo modo, un grande rivoluzionario e, certamente, un martire.

Photo by James Coleman

 

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