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Talarico | Leggendo Barbato

Leggendo Capogatto di Emilia Barbato


 

Capogatto (puntoacapo, 2016) di Emilia Barbato, già dal titolo ci propone un fertile simbolismo per provare a decodificarne la sua materia. Infatti, se col termine “capogatto”, di probabile derivazione latina da “caput captum”, si riescono già a rintracciare sinonimi in “capogiro” e “capostorno” (quest’ultimo a indicare una patologia animale caratterizzata da apatia, stordimento e alterazione della coscienza), è bene anche affacciarci all’arboricoltura, come suggeritoci nelle note dall’autrice, per individuare nel termine quella tecnica che consiste nell’incurvare il ramo di una pianta fino a sotterrarne un’estremità, inducendo così l’apice a farsi radice, in un’immagine tanto allegorica quanto terrestre, che non può non richiamare il cerchio che contiene e unisce alto e basso, principio e fine, dell’albero della vita.
Il libro si suddivide in tre sezioni: Bastìa, Capogatto e Via dei transiti. Volendo indicare con “bastìa” una fortificazione improvvisata, si completa probabilmente un primo abbozzo di lettura dell’opera. Premesse queste considerazioni, infatti, il titolo e i capitoli che lo compongono ci suggeriscono anzitutto un percorso di contrari, fatto di smottamenti e guarigioni, di malattie, inverni e rinascite, di assedi e resistenze, e di relazioni complesse.
L’autrice, lungi dal poter essere tacciata d’inconsapevolezza, sembra tuttavia non temere l’incanto di un vivere e di un amore puri, anche a costo di essere vulnerabile. Ci invita anzi sin dal testo d’apertura al rifiuto del così-stanno-le-cose, di essere ignorando, esortandoci quasi mormorando a “recuperare con cautela / (…) il nostro modo di essere luoghi” (p. 11). Il mormorio percepito non è solo un’impressione: questa scrittura ha in sé molto della preghiera, molto della propria intimità, anche se Emilia Barbato difficilmente nomina sé e il suo oggetto, quasi ci trovassimo di fronte al paradosso di un privato impersonale. Ma questo privato lotta non solo contro un ego autoreferenziale, cercando altresì di porsi in quello snodo tra scrittura e scarto, tra silenzio e riflessione (“quantifica ti prego / la voce che sacrifico / nell’apnea della ragione” (p. 29)).

La maggior parte delle poesie qui contenute ha una particolarità: un solo punto in tutto il componimento, al termine dell’ultimo verso. È come se l’autrice concepisse le sue poesie come un tutt’uno che partendo si apre a frattale, quasi fosse anch’esso una ramificazione. I testi cominciano e da lì, fino alla fine, solo curve, bivi, ingrandimenti. Pare quasi come se ogni virgola fosse un intaglio nel legno, ogni volta un filo più esatto, più completo, ma al contempo anche più sfaccettato e più complesso.

Non c’è dubbio che questa scrittura sia figlia di un’attenzione virtuosa all’esattezza della parola; la sua poesia ci appare omogenea, spoglia e rigorosa, alla costante ricerca di una verticalizzazione che è centramento, pur se figlia di un nulla di senso (come non pensare alla più che riuscita Santuario (p. 30), capace di richiamare alla mente il nullificare generante di Meister Eckhart?). Questo scrivere che riflette anzitutto su se stesso (“sei la materia che conosco / da tacere” (p. 38)) si caratterizza infatti nella lontananza; la sua è la distanza che corre tra mondo vegetale e mondo animale: altri sono i tempi, altre le vulnerabilità, altri i decorsi di guarigione, altro addirittura l’amore, qui coniugato in un “amore lento” (p. 67).
Interessante anche come il capitolo conclusivo, Via dei transiti, prenda verosimilmente le mosse dalla stasi, proponendo in prestito l’immagine di una pupa. Ogni frattura, ogni transizione è difatti in principio energia potenziale, congelamento, affinché possa inverarsi il rovesciamento di una crisi capace di mutare in opportunità, in gestazione e cambiamento. Sembra come se la Barbato volesse concentrare tutte le energie immortalando e dilatando quel solo istante, quasi a renderlo eterno. Altrettanto significativo è il fatto che questa stasi fatta di attese non sia figlia di quiete, ma di contrasti: non a caso l’autrice, mai come in questa sezione, mette sul piatto della bilancia i contrari, le altezze coi precipizi (p. 64) e il librarsi di una farfalla dalla crisalide col morire del bruco che non più sarà (p. 51).
Se il suo dire a tratti sfiora un farsi aereo, sembra per contro quasi di sentire il peso, gli odori e le sensazioni addirittura materiche delle esperienze che lo hanno generato. Inoltre, seppure questa poesia nasce da uno stato indotto di insicurezza e di smottamento, è degno di nota quanto sia poi capace di tradursi in una scrittura così limpida e rigorosa. Capogatto è infatti un libro di una prudenza apparente: cela in sé lampi sfacciati di riflessione e di visione autentica. Emilia Barbato cura i suoi versi e il suo pensare come il giardiniere che si premura di fare innesti, di rimuovere i polloni, di diserbare le infestanti e rimuovere i parassiti, seguendo con cura, pragmatismo e attenzioni il crescere di un fiore. Per questo impulso a scarificare, l’autrice, senza mai flettere la dignità, sembra capace di disarmare le barriere, spogliando “la mente con la stessa / risoluta determinazione / con cui il fiore / di tarassaco mostra / al vento le sue nudità” (p. 62). Il resto non conta più, anche a costo di fare terra bruciata intorno, anche a costo di tornare infine alla consapevole e sognante vulnerabilità dove tutto ha avuto inizio, ritirandosi in un mondo migliore fatto di utopie, forse, eppure così umano, dove in luogo del fracasso quotidiano basterebbe già solo vedere che se “uno pensava di morire / sul binario, l’altro non imprecava del ritardo” (p. 60).

 


Emilia Barbato, Capogatto, puntoacapo, 2016, pp. 80, euro 12.

Comments (1)

  • Mauro Ferrari

    Grazie Dario per questa attenta e approfondita lettura di un libro davvero bello e originale. Hai colto nel giusto anche annotando la precisione dell’occhio poetico di Emilia, poetessa vera e “necessaria”.

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