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Talarico | Leggendo Pertosa

In punta di penna: Leggendo Biglietti con vista sulle crepe della storia di Alessandro Pertosa


Nel 1985 Giovanni Lindo Ferretti gridava nel microfono di un qualche scantinato reggio- emiliano la nuova, imperante trinità del moderno: «Produci-Consuma-Crepa». Trentacinque anni dopo, dall’Appennino marchigiano, Alessandro Pertosa in Biglietti con vista sulle crepe della storia (puntoacapo, 2020), titola i suoi capitoli Abitare, Generare, Lavorare, Naufragare.

Quest’opera si presenta sin dal principio originale, sia nell’aspetto, anzitutto con la scelta del prosimetro, sia per l’anacronismo insito del pensiero che in esso e da esso permea. Un anacronismo che, volendo accogliere l’imbeccata dell’autore nel suo preludio, e per riprendere ancora e per l’ultima volta in prestito parole dal mondo cantautoriale, si muove in «direzione ostinata e contraria», rifiutando e temendo qualsiasi pensiero che si fa maggioranza:

«Io sono voce di uno che grida nel deserto; la corrente di naufragio e il vento in poppa; l’approdo malsicuro in ogni spazio aperto. / / Falce di luce, la mia parola falsa. Lingua scintillante, la mia parola vera; che cammina e s’insinua nel folto di ogni bosco; e raggiunge il culmine affilato del crinale, per sprofondare meglio. / / Io sono voce che dorme alle estremità di tutti gli alfabeti; che parla e grida senza lacci né catene; e girovaga fra i sogni, insonne. / / Io sono voce che sbanda oltre il confine; dove l’estremo torce in mare aperto, le stravaganze di questa mia preghiera smisurata. / / Navigo a vista senza conoscere la meta; né il senso del mio andare: del mio dire, del parlare. / / Tanti passi faccio avanti, per altrettanti frano indietro; e ricomincio sempre dall’inizio i balbettii; l’identico terrore; lo stesso strazio» (pp. 11).

E’ a questa pagina che Pertosa affida il primo passo all’interno della sua raccolta, dove si enucleano alcune componenti imprescindibili della sua riflessione, e nella quale si chiosa emblematicamente l’inizio con un eterno ritorno, che, insolubile e lacerante, ha molto più di nietzschiano che di orientale.

Biglietti con vista sulle crepe della storia è infatti testimonianza di una scissione, di una tensione mai smorzata tra il disincanto e la fede in un mondo più giusto e verace, tra il proprio sentire, il sapere, e il vedere la realtà amorfa e distante di tutti i giorni. Nasce forse proprio da questa crepa, da questa impossibilità a far combaciare i poli, il fatto che l’intento dialogante del libro si risolva infine in un reiterato monologo.

Ecco che allora, nonostante le immagini che popolano queste pagine, se si vuole fantasticare uno sfondo per questa scrittura, non si riesce a pensare a un luogo per essa che non sia il silenzio. Ma un silenzio ricolmo, denso, a volte rabbioso, a volte malinconico, qualche volta nostalgico, qualche volta sognante. Quella che fin da subito si avverte è una corsa impossibile contro il tempo, un Don Chisciotte in irrisolvibile ritardo, colpevole di aver visto cosa era e non è più, colpevole di memoria, di aver conosciuto i sapori, gli odori e i valori di un mondo rurale e arcaico in declino; di un urbanizzazione che lo ha prosciugato, sventolando in alto la bandiera di sempre-nuovi dei. Questa nostalgia della sparizione è tuttavia diametralmente opposta alla «nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento» di Carmelo Bene. L’autore di Biglietti con vista sulle crepe della storia rivendica gelosamente i propri luoghi e i propri ricordi storicamente esistiti.

Così, pagina dopo pagina, matura la misantropia per un’umanità quasi robotica, un’umanità disumana e frentica, dalla quale l’unico riparo sembra essere un complicato rintanarsi (pp. 77) e il fuggire il suo chiasso là dove «bastano i silenzi» (pp. 20).

Non dovrà sembrare paradossale il fatto che, i testi forse più riusciti, siano proprio quelli della sequenza urbana, dove si avverte da vicino la sua rottura mostruosa. Proprio qui la contrapposizione si fa vertigine. Solo qui, da dentro la città, l’autore può rivolgere il suo sguardo al corpo esanime dell’umanità modernizzata:

«Li avessi visti tutti quanti giù al mercato stamattina; sembrava non ci fosse più un domani. Corse, fila, clacson. Uomini ubriachi di petrolio; con le mani nelle carni intrise d’olio, e l’orrido stantio dell’unto; ma nel bailamme nessuno ha centrato il punto: mangiare è un atto agricolo… / / E il rastrello scortica la terra. / La zappa solca e l’acqua e il sole / tra estati inverni autunni e primavere. / / I vecchi dicevano / a ogni giorno la sua pena. / / Ma ogni giorno aveva un senso, un ordine divino. Tu invece hai comprato le zucchine, santiddio. Le hai comprate nel bel mezzo di un dicembre ghiaccio e neve» (pp. 27).

L’autore rifiuta con orgoglio questo vivere distante e blasfemo, la frattura dei cicli, la virtualità asettica (pp. 55) di cui magistralmente ha scritto Baudrillard, l’abuso perpetrato dell’umano sulla natura. La prepotenza che ritiene di poter piegare la natura e i suoi ritmi, e l’ignoranza che coglie il raccolto di questa prepotenza, senza rendersi conto di quanto questa vittoria, sia un perdere vergognosamente. Più ancora, Pertosa, probabilmente sin dalla scelta metrica, non vuole che respirare libertà e guarda l’uomo tramutato in una massa imbrigliata, piatta e uniforme, constatando come «il popolo (…) serve così bene e con tanto zelo che, osservandolo, si potrebbe dire che non solo ha perduto la sua libertà, ma piuttosto ha conquistato il proprio asservimento» (E. de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria).

«Non c’è cristo che tenga al centro commerciale; le chiese le ha svuotate il treperdue, che Carlo Marx nemmeno ci pensava. Le campane suonano (le offerte) a radio unificate, e i sacerdoti richiamano alle croci fedeltà, mentre assolvono alla cassa il socio golden paradiso… / / quindi t’ammazzi di lavoro / perché sennò il tenore lo status la buona società; / e intanto il tempo passa e fila via (…)» (pp. 29-30).

Ma l’autore sa che quello in atto è un mutamento storico radicato e che non c’è verosimilmente un modo di tornare indietro. Oramai, anche se si ripopolassero i paesini abbandonati dall’urbanizzazione industriale, anche se si tornasse «fra crolli di muri e rovine, sarebbe uguale» poiché «non dura mai a lungo un amore senza fine» (pp. 33). La possibilità ferrettiana di rincasare, reduci, a distanza di una vita, di ritrovare le proprie radici, potrebbe probabilmente essere ancora una scelta, ma solo a livello individuale, mentre la redenzione del mondo occidentale non può che essere affidata a un «dio», rigorosamente minuscolo (pp. 35).

Alessandro Pertosa, nelle sue invettive, tenta anche di deviare il nostro antropocentrismo terminale, sottolineando in prima persona l’effimero del proprio essere al mondo, e mettendolo a impietoso confronto con le leggi dei corpi celesti, delle cose ultime che ci sopravvivranno e che già erano quando noi non eravamo:

«Statemi accanto se muoio.
Tutti insieme vogliatemi bene. Aprite le porte,
fate entrare la gente. Che si veda negli occhi la morte.

Statemi accanto se muoio. Tutti insieme stringetevi attorno in un funerale di festa; perché non è questa la fine:

resta ancora il tramonto del sole, e l’arcobaleno che fugge più in là chissà dove» (pp. 40).

Così, sempre all’interno della odierna contrapposizione uomo/natura sulla quale il libro si concentra, viene preso in esame anche il lavoro, che sia di fabbrica (come non pensare ai versi graffianti di Di Ruscio?), degli investimenti in borsa (pp. 62), o quello nei campi. Nel componimento intitolato «biglietto a un amico che lavora all’Ilva e vuole restarci», si palesa forse l’assurdità apocalittica che anni fa, il terrorista anarco-ambientalista Theodore Kaczinsky aveva profetizzato ne La società industriale e il suo futuro, asserendo che «in futuro i sistemi sociali non dovranno adattarsi alla richiesta dei bisogni degli esseri umani», ma «l’essere umano si adatterà alla richiesta dei bisogni del sistema».

Avvicinandoci alla conclusione, emergono dal libro queste poche parole di grande intensità, di intima ricerca umana e poetica, le quali, ci restituiscono la cifra di questo vivere autentico, in tutta la sua meravigliosa contrizione: «La vertigine del mio disagio è non riuscire a lasciarlo bianco questo foglio. E in punta di penna mi dico: vale comunque la pena provarci. Ma sulla carta è sempre lo stesso abbaglio; sempre lo stesso errore. (…)» (pp. 84).

E la carta potrebbe anche essere la vita. In Pertosa tutto è carnale, sanguigno, e il suo stesso apparato filosofico non si risolve mai nell’elucubrazione di un pensiero astratto, ma si vuole sempre ctonio, sempre pragmatico. Le stesse immagini che ci dona, sembrano non tanto voler figurare o trascendere, quanto incarnarsi anch’esse nel pensiero.

Sul finire, contro l’archetipo del gambero (e della sua vita «a reculons», nella quale, invece, Apollinaire tanto si identificava), quella che l’autore sembra voler evocare è la figura di un uomo nuovo, un uomo capace di viaggiare naufragando, di risorgere «nel massimo sprofondo dell’altezza» (pp. 70), cercando nella poesia di ogni giorno il gesto rivoluzionario di ubriacarsi di stupore (pp. 31), capace ancora, nonostante tutto, di sognare, e, proprio per questo, comunque ancora e sempre andare avanti. Riguardo al preludio si era accennato a un eterno ritorno; ora, in chiusura, per riaffidare tutto allo stesso disegno, si concluderà questa nota di lettura con le parole di Eduardo Galeano: “L’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo serve, per continuare a camminare».

 


 

 


Biglietti con vista sulle crepe della storia | Alessandro Pertosa | Puntoacapo Editrice |

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