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Talarico | Un mutuo osservare

Un mutuo osservare: leggendo L’attenzione di Angelo Andreotti


Attenzione. Attentio. Ad-tensio. Ad-tendo. Ad-tendere. Tendere a. Sembra questo il significato più intimo del termine e del libro di poesie L’attenzione di Angelo Andreotti (pp. 92, puntoacapo, 2019). Tendere a, tendere verso, volgere l’animo verso, instaurare un dialogo quindi è la richiesta, o meglio la speranza, dell’autore per il testo e per un’umanità che ha smesso di ascoltarsi. E questo reciproco fissarsi, questo scambio, prende forma anche dai titoli che danno nome alle tre sezioni dell’opera. Infatti ciascun capitolo richiama un verso o un passo di altri autori come a riprendere simbolicamente, proseguire, trasformare anche in questo dettaglio un conversare che dura da quando l’uomo è tale. Un continuo rimandare e rispondere in differita a un discorso o a un pensiero iniziato decine, centinaia o migliaia di anni fa.

La scrittura e la riflessione hanno una qualità e una costanza di tutto rispetto. Pochissimi testi appaiono sotto tono, deboli e nessuno che per contro prepotentemente cerchi di emergere dall’opera, cercando di brillare di luce propria. Qui tutto coopera. Un garbo composto orchestra il tutto al suo interno. Lo stile piano e discreto offre la possibilità al lettore di porre la massima attenzione, appunto, al significato. E c’è dell’affascinante in questo scrivere enigmatico, di un’insolita vaghezza chiara, asciutta: «Dall’oblio vai togliendo parole / di cui avverti quel senso lontano / che non sai / ma non puoi più tacere» (pp. 16). Leggendo queste pagine si ritrova il sapore della buona poesia: colta, ma non professorale, anzi commossa; disincantata, lucida e comunque ostinatamente sognante. Un’astrazione sospesa eppure concreta, che ha argini, confini. Una poesia cerebrale ma non cervellotica; complessa, ma mai oscura. Qui si avverte una ponderata e cauta scelta delle giuste parole pur evitando sapientemente quei termini così maleducatamente altisonanti che tanto infastidivano Karl Krauss.

Le immagini che popolano il testo senza sovrabbondare sono perlopiù di ordine naturalistico, con una maggioranza schiacciante di foglie, rami, alberi, venti e cicli solari o lunari. Se dagli alberi e dalle foglie ne esce uno scenario di bellezza e caducità, dall’alternarsi così ripetuto di soli e lune ne viene una rappresentazione invero realistica del perpetuo ripetersi, del continuo tornare, del continuo ricominciare e rinascere. Così il vento le richiama entrambe, ma anche la abscissione fogliare è ciclicità e anche lo sfiancante albeggiare e tramontare è caducità.

Forse anche per questo si percepisce l’anelito atavico a voler lasciare una indelebile «impronta delle mani sulla terra» (pp. 20) e il temporaneo controcanto (pp. 14) al Qoèlet, salvo poi smentirlo, e nello smentirsi essere così umano nell’abulico quotidiano morire (pp. 41) e nella sorda vanità di tutte le cose (pp. 42):

Qui giù, i nostri passi non camminano. Tu, quasi morto, ti annidi in quest’epoca come l’aria tra i colori d’autunno.

Qui giù, i tuoi passi tentennano con quella stessa inutile prudenza che ha una foglia nel cadere.

Così, una pagina dopo appena, l’autore rilancia con un’esortazione a essere ancora capaci di stupirsi (pp.43), per poi spegnersi di nuovo nei toni più leopardiani (pp. 45), in un continuo parteggiare senza mai definitivamente sapersi risolvere. Ma è proprio questo viscerale contraddirsi, questo vedere bene eppure tendere a una propria visione migliore che rende cosa così viva questo libro. Viva e al contempo non morta, ma inesistente (pp. 46) facendo eco al Carmelo Bene de ‘l mal de’ fiori che in versi incideva «Procreare non è dar vista ai ciechi / È destare al tepore / perfido d’un istante un filo d’erba / che non è» . Andreotti è un osservatore puro, attento, che sa che guardare è un mutuo scambio con l’osservato (pp. 29) così come lo è anche il leggere e lo scrivere. «Tu sei il possibile ascolto. /Tu sei // la speranza / il rifiuto / oppure l’indifferenza. / (…) / La differenza nel mondo sei tu» (pp. 40). E proprio per questo lamenta l’anaffettività che lo circonda (pp. 47), reale e oggi ancor più virtuale, che diviene incomunicabilità, rapporto sterile, egoica auto- referenzialità (si pensi a Chiarimenti di Umberto Fiori) e distrazione. «Qui nulla più accade. // Qui nessuno è più presente: / ci si incontra senza più vedersi» (pp.38) e a seguire: «ciascuno racconta una storia / (…) / di paure che non sanno riconoscersi / da un volto all’altro» (pp. 39) e l’atmosfera ricorda il celebre dipinto di Edvard Munch Sera sul viale Karl Johan. L’assenza di empatia si traduce in individui isolati e terrorizzati sfociando in una più “igienica” indifferenza (pp. 49) di un mondo «inguantato» dove a proteggerci, in un vivace paradosso, non resta che «la nudità del nostro corpo» (pp. 53).

Ma c’è anche la capacità di uscirne, di adattarsi (pp. 74), di trovarsi, o meglio riconoscersi nel Tat Tvam Asi (pp. 70), nella speranza etica e morale «che la pietà sia sorrisa dagli occhi» (pp. 76), nella consapevolezza che «qui tutto rimane per poco / e in questo trova senso il tuo cammino» (pp. 79). Sono queste alcune delle pagine di un sognatore, un sognatore concreto. Un sognatore che nel reale cade nel disincanto e nel disincanto sfacciatamente spera. Un sognatore che non nella rassegnazione, ma nell’accettazione trova forse infine la sua strada. Così Angelo Andreotti, su un tema sensibile che trova anche in Buber il suo spazio d’attenzione: «L’unificazione e la fusione con l’intero essere non può mai avvenire attraverso di me, né mai senza di me. Divento io nel tu; diventando io, dico tu. Ogni vita reale è incontro» (Martin Buber, Il principio dialogico).

 

 


“L’attenzione” di Angelo Andreotti | pp. 92 | puntoacapo | 2019.

Comments (1)

  • Angelo Andreotti

    Gentile Talarico, la ringrazio di cuore per questa sua profonda riflessione sul mio libretto. Ne ha colto il senso e il segno. Ne ha colto i turbamenti e gli sguardi.
    Le sono davvero grato.
    Angelo Andreotti

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