Montorfano | Il luogo vuoto
È il 1996 e tra pochi giorni sarà Natale. Ma nell’Oceano che impregna tutto lo spazio la festa è una strana luce vagante che sembra provenire dal sogno dell’infanzia. La precisione, la dolcezza, la forza crudele degli elementi occupano i pensieri degli skipper della Vendée Globe, la circumnavigazione, in senso orario del continente artico, che parte da Les Sables D’Olonne, in Francia senza scalo, senza assistenza e in solitario. Sono nell’Oceano Indiano Australe e Catherine Chabaud, che si trova nelle retrovie, avvisa il gruppo avanti di una discesa in picchiata del barometro: “Attenti, c’è una depressione molto profonda che non tarderà a raggiungervi”. Raphaël Dinelli, comincia a sentirla e naviga a secco di vele.
Sono le ore 13 del 25 dicembre e al centro organizzativo di Parigi arriva la segnalazione che Dinelli ha attivato i sistemi di allarme. Il direttore di regata Jeantot contatta gli skipper più vicini fornendo l’ultimo rilevamento di Algimouss, l’imbarcazione di Dinelli. Pete Goss sta combattendo con la stessa tempesta quando riceve il messaggio. Deve tornare indietro, bolinare contro una burrasca che soffia oltre i 70 nodi, cercare Dinelli in una zona dove nessun aereo di ricognizione può effettuare operazioni di salvataggio. Pete Goss dichiarerà: “Sapevo che dovevo farlo, per me stesso, la mia famiglia e lo spirito del mare”. Porta la barca all’orza che si sdraia sull’acqua e inizia a bolinare nell’inferno per cercare Algimouss. Raphaël Dinelli ha scuffiato, l’albero ha sfondato la coperta e l’acqua ha invaso la cabina. Il 26 dicembre un aereo da ricognizione sgancia delle provviste a Dinelli, con un messaggio: “Pete Goss 10 Hours in The South”. Il 27 dicembre all’1,09 di notte Goss lo trova legato al relitto in pieno Oceano del Sud. Il telex a Jeantot è rincuorante: “Ciao Philippe, Raphaël è a bordo, non è in ipotermia, siamo molto stanchi. Con affetto, Pete”.
Ma l’Oceano non arretra. Libera la sua opera e aggiunge se stesso alla propria superficie, la profondità in cui discende ora si innalza. La burrasca fa a pezzi la flotta. Il 5 gennaio Tony Bullimore di Exide Challenger e Thierry Dubois di Pour Amnesty International attivano i segnali di emergenza, entrambi hanno scuffiato. Dopo quattro giorni di ricerche i mezzi della Marina Australiana riescono a recuperare i due naufraghi: Tony Bullimore ha perso un dito ma le sue condizioni sono buone, come quelle di Thierry Dubois.
Ora è il 7 gennaio e Gerry Roufs, che si trova in seconda posizione, naviga vicino all’Antartide. Essendo la terra sferica, ha deciso di andare più a sud possibile così da percorrere meno miglia e doppiare più velocemente Horn, per poi risalire attraverso le più gentili acque dell’Atlantico. Ma le condizioni sono proibitive. Il vento urla, le onde sono macigni. La notte non fa che confermare la sua vocazione al disordine, minacciosa per alcuni, promettente per altri, per altri ancora impotente, sterile promessa. La notte arriva e Groupe LG 2, la barca di Roufs, non emette più segnali.
Isabelle Autissier, Marc Thiercelin e Bertrand de Broc modificano la rotta e vanno a cercarlo in un mare spaventoso. Qui i gelidi venti che si formano negli sterminati altopiani dell’interno del continente, si intensificano mano a mano che si avvicinano alla costa, in senso discendente, e la raggiungo ormai convertiti in venti da uragano, generatori di violentissime raffiche di vento e violenti temporali costieri. Questi venti catabatici, nel tratto finale, arrivano a superare i 100 nodi con raffiche di 200 come registrato dalla base antartica cilena Capitán Arturo Prat.
L’aria molto fredda, che si genera permanentemente sui giganteschi altopiani antartici, si sposta in modo naturale verso i bordi del continente, in senso radiale, deviando a causa dell’effetto di Coriolis ed accelerando lungo i versanti, verso il basso, specialmente lungo le scogliere e lungo i fronti glaciali costieri. In questi tratti finali del percorso, i venti catabatici raggiungono la massima intensità.
Si naviga in un ruggito senza tregua, la chiglia s’impenna in aria e sbatte con violenza da una parte e dall’altra, il vento urla e sibila, le onde spazzano il ponte schiumando in un frastuono continuo. La vita è al di sopra dell’assenza. Tutta l’opera visibile è ghiaccio spesso fino a cinquemila metri, vecchio di dieci milioni di anni. Centinaia di chilometri di bianco che scendono in mare liberando blocchi grandi come palazzi. L’acqua è diversa, più rumorosa, più nuda. Il vento, a parità di nodi, spinge con maggior forza sulle vele per via della densità delle molecole fredde. Il silenzio è circondato dal terrore, il rumore è il velo dell’invisibile che si propaga.
Qui tutto diventa fantasma e le verità hanno la certezza sfuggente di un’immagine, vicina e inaccessibile.
Poi arriva il nero, la notte. La terra si ferma. Il tempo scivola nell’inconsistenza degli istanti. I ricordi, gli amori, il futuro, dissolvono ogni centro, rompono la libertà. Le parole sono cadute. Le poche che resistono fanno parlare l’intermittente, non una parola che unifichi, non più un passaggio o un ponte, ma la capacità di superare le due rive separate dell’abisso senza colmarlo, senza ridurlo, senza riunirlo. Non c’è unità né desiderio. I colori lasciano posto all’estraneità. Il rumore delle onde, il vento che urla e ruggisce, lo scafo che impatta non riconoscono più l’altro o l’alterità. Non c’è silenzio ma una reciproca estraneità. Un tentativo di relazione immediata in cui lo stesso e l’altro pretendono di fondersi l’uno nell’altro o di avvicinarsi l’uno nell’altro toccandosi nel mistero delle lontananze. Un’anomalia fondamentale gioca tra gli spazi saturi di schiuma. Il vento è bagnato, il cielo è acqua che scrive su fogli diversi le stesse intenzioni ancora da decifrare.
Tutto è in gioco e tutto si trattiene. L’altro, il diverso, l’estraneo nella sua totale divergenza, sono infinitamente separati.
Il nero copre le mani. L’Oceano sale alla gola, la bocca crudelmente piena.
La notte incede. La notte libera. La notte sostituisce. Essere nel buio o fuoriuscire dal buio è l’abito con cui ci avvolgiamo in un soprassalto della vita, un movimento della nostra scrittura che si frammenta. La notte ha la caratteristica di prestanome di un dio che muore per rinascere sotto le spoglie di una pesante semplicità. La semplicità di ciò che deve venire e che si circonda degli estremi in essa possibili. Avvolgersi nella notte non è lo scomparire nell’oscurità che cancella con il catrame il cielo sopra di noi, ma lo spazio che si dispiega davanti ai nostri occhi, nero nel nero dove il mondo e la società non possano inserirsi e riconoscerci.
E questa notte è il legame con la forza indomabile che la debolezza nasconde. Questa notte concede nel proprio istante e tra l’oscurità delle sue mani, la chiarezza.
L’ultimo messaggio di Roufs lasciato nel buio tra il 7 e l’8 Gennaio dice: “Qui le onde non sono più onde, sono Alpi”.
Il Cross Etel che coordina le emergenze ordina agli skipper di interrompere le ricerche, le condizioni del mare mettono in pericolo la loro stessa vita. Isabelle Autissier, esausta, scoppia in lacrime.
L’ultimo messaggio di Roufs è più forte dell’eternità. Non grida, non ci sono macerie tra le parole. Non c’è l’abbandono al vuoto gioco della disperazione né la lenta agonia che affida l’uomo al lontano della propria morte. Solo nero oceano e un cielo disperso nel fragore dell’acqua. Chiudere gli occhi, affidarsi. L’aria fredda, l’acqua fredda, l’azzurro purissimo. La notte brucia tutto quello che le è dato. L’impero del mare strappa anni di lavoro, giorni disperati, fatiche, sorrisi. Il mare ignora e disperde. Da qualche parte, gli albatros volano tra le creste delle onde. Il rumore rende indifferente l’inafferrabile profondità della passione.
L’uomo è scomparso. La notte lascia il proprio cuore vuoto rivolgersi altrove.
*Lo scafo capovolto Groupe LG 2 è stato avvistato in mare aperto il 16 luglio 1997 e formalmente identificato il 29 agosto 1998 al largo del Cile. Parti della barca sono state trovate sull’isola di Atalaya nel sud del Cile dall’esercito cileno.
Photo by Tim Marshall