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Montorfano | Refuse/Resist

Come si esaurisce una possibilità?

Mettendo in un angolo la forza che l’ha generata con il favore di un silenzio ordinario.

Mettere in silenzio e in cecità la forza che impone, costringe, urta, impedisce; la parola che non si spegne nella notte ma che, sulla base di una effrazione, penetra in noi e nella nostra intimità.

Mettere in silenzio quel linguaggio sovraccarico di segni in cui si ingarbugliano tutte le strade del mondo e che lì si fanno rabbia. Quel linguaggio di cui non si intravede nulla, non si capisce nulla, se non una contraddizione senza profondità. Una lingua idiota che fa del rumore il suo marchio distintivo. Perché la violenza che passa nella parola usandola come forziere non entra in un ordine di ragioni né in una composizione di forze in vista di un risultato. È al di qua dell’intenzione e al di là del risultato, come un fruscio furtivo snatura ciò che tocca, saccheggia,  massacra. Nontrasforma, toglie piuttosto la forma e il senso, riducendo tutto a un segno della propria rabbia, a una cosa o a un essere violentato. La violenza ignora il mondo che essa stessa violenta. Vuole essere impossibile, intollerabile per lo spazio della possibilità. Non vuole sapere niente di ciò che lacera e distrugge ma vuole essere solo questa ignoranza, questo accecamento deliberato, questa ottusità e questa volontà ottusa che si sottraggono a ogni connessione e sono occupati solo dalla sua intrusione. È questo il motivo per il quale la violenza è profondamente stupida. Stupida nel senso più grossolano, più irrimediabile. Una stupidità data non dalla mancanza di pensiero mapeggioda unassenza voluta. Meno di un pensiero quindi, meno di un pensiero nascosto, inabissato, sotterrato.

Qui non si parla di dolore ma di un gesto: il gesto del calpestare con rabbia tutto ciò che fiorisce davanti a lei, tutti quei tesori, quei turgori, che l’ambito e l’evento della vita lanciano come una mano di dadi.

La violenza non gioca il gioco delle forze. La violenza è pura emanazione, la volontà di esaurirsi scatenandosi. È al di qua della potenza e al di là dell’atto. Il violento vuole vomitare tutta la sua violenza, vomitarsi in essa. Espellervi tutto il proprio spessore ed essere solo quello che picchia, tortura, spacca. Non è mai al servizio della verità perché vuole essere essa stessa la verità. All’ordine composto di cui non vuole sapere niente, non sostituisce un altro ordine, ma se stessa e il suo disordine. È essa stessa o, meglio, sono i suoi colpi che sono o fanno la verità.

La violenza razzista è esemplare: è la violenza che prende a pugni una faccia, perché quella faccia non le va a genio e la schiaccia perché farlo equivale a verificare.

Allora, mettere in un angolo questa forza violenta è spingerla nella sospensione della parentesi, in una atrofia che è la cenere del tempo e dello spazio.

Metterla tra parentesi, nello stato di stallo della parentesi, significa lasciarla continuamente nel mentre di un ritorno così che la sua soluzione sia procrastinata all’infinito, incatenata al momento eternamente sospeso, ridotta tra il nonancora e il nonpiù. Significa lanciarla in balia di un silenzio assordante, lasciarla a vegliare la notte come le cose che non hanno più niente di decisivo.

Allora forse la vedremmo strapparsi. La vedremmo battere i pugni e strepitare cercando l’evasione dalla parentesi che la tiene in ostaggio. La vedremmo sfiancarsi fino a un misero patimento, fino al limite del non sapere perché mostri questa terribile apprensione, questa assenza di cautela, questa totale ferocia che continua a non sortire risultati ma anzi, complica l’incomplicabile, sovraccarica le parole fino a impedirsi di dire ciò che vorrebbe, di annerire gli spazi delle indecisioni, di spezzare le critiche, assalire gli oppositori.

Allora, in questa immagine impossibile, in questo profumo della paura che si alza tra le macerie dei propri colpi, forse la vedremmo strapparsi. E sulla superficie dello spazio slabbrato qualcosa di piccolo e di bizzarro, qualcosa di minuto e inutile lampeggerebbe ai bordi di quelle proprie mani che non sa più trovare. Uno strappo che la posizioni tra le cose avariate, tra quelle parole che si forano e si rovesciano per mostrare il loro fuori. Un fuori di niente, di significati inoffensivi, avvizziti, morenti. Una pura merce che scompare nel cumulo delle merci. Qualcosa di ormai abbandonato che, se parla una lingua, non ha più nulla da spartire con la vita.


Cfr. J.L. Nancy, Image et violence, Éditions Galilée, 2002

Painting: “The taking of Christ” | Michelangelo Merisi da Caravaggio | Oil on Canvas | 133.5 x 169.5 cm | 1602

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