Saracino | Amare una città
Una geografia audace e mitica sottende la passione che nutriamo verso le città della nostra vita. Non misurabile né argomentabile, è una geografia che resta aperta, come un palmo proteso a spendersi e consumarsi nello spreco di suggestioni che prescindono dalla manualistica, dai nozionismi, dalla cultura mediatica assorbita passivamente. Amiamo una città e lo riveliamo a noi stessi col candore del desiderio che spesso si frantuma di fronte allo stupore di non essere all’altezza delle nostre stesse proiezioni o delle rappresentazioni che in quelle immagini di città riferiamo di vedere nell’onirica ora della nostra vita.
Talvolta città sono regioni o aeree intere: è per questo che le nomenclature esplodono di fronte al fascino dell’Insieme. Lucania allora è un suono dolcissimo, evocato nelle notti dei calanchi, dove il castello di Valsinni è un’iride vigile e i sassi di Matera virano al timone della notte. Allora, mi pare che successo e fallimento entrino in gioco. Chi osa profanarli nel solo esercizio di identificazione con i gesti e gli atti umani? Io vedo successi e fallimenti nei luoghi della nostra vita, nell’urbanistica ricreata dalla scala degli eccessi che varchiamo, piolo dopo piolo, un istante prima di svettare sulla sommità o di precipitare al suolo della caducità delle cose umane. Se la letteratura rifocilla uno spirito inquieto, il luogo lo espande nell’analisi sincrona di ciò che è successo, di ciò che è fallimento. Così le città che più amiamo incarnano questa dualità e la rendono ora estranea, come il demone della distanza, ora fraterna, come un volto familiare che esonda dal nostro cuore e chiede scusa per essersi approssimato troppo al balsamo della nostra passione.
A volte, sono le zone misere ad attrarci, a dividerci per l’eccessiva ansia di trarle in possesso. Sono le zone di ombra, le fitte foreste dei sentimenti che cambiano, al tocco salubre di una strada mai vista, un panorama annegato nel rosso sangue del tramonto, un bar arioso dove è di vedetta la nostra giovinezza, vestita di poco, seduta a un tavolino, che occhieggia al passato come a un amante ispiratore. Perché le città più desiderate sono in assoluto quelle al cui interno è imbrattata la nostra vocazione a vivere, quasi deturpata, come le rovine di quello o quest’altro scorcio.
C’è Atene che svetta nella elemosinante preghiera di una ricompensa. La sua bellezza sfigurata dal tempo è infatti solare, abbacinante, una torrentizia energia che sfuma in una devozionale magnificenza. E persino nel pulviscolo caduto da una pineta ai piedi dell’Acropoli, tu puoi sentire che alberga in lei un’assidua confessione a splendere. Pure tra gli accumuli dei mercati o di piazza Omonia, dove a volte ho visto coi miei occhi perdersi nelle droghe giovanissime donne, si respira un’impressione di tenace possenza, che destruttura la ricerca della turistica fama e genera visioni più profonde. Spostandoci, navigando tra i mari Egeo e Ionio, che sono i palmi forse intrecciati di un’unica vita acquea, siamo già sull’altra sponda, la Puglia verticale, peninsulare e adagiata su un fianco, dove dormono tra due guanciali costieri solo le cose nominate, le cose rimaste, che hanno resistito.
Certi anfratti sotterranei, dove scopri d’incanto un tesoro nascosto: nelle campagne di Ceglie Messapica esiste una chiesa rupestre scavata sottoterra, segnalata solamente da un albero di fico abbarbicato alla cavità da cui tu, se sei gioioso, se sei giovane di cuore, puoi entrare, col piede diretto alla discesa negli anni. E se procedi per vie che portano più a sud, dal versante adriatico all’arco ionico, su quei chilometri di dune intatte che dalla Marina di Maruggio arrivano alla Salina dei Monaci, troverai una masseria villaggio dal nome augurale e icastico: Mirante. È in questo participio presente che situiamo la storia dei successi e dei fallimenti. Poiché è nel mirare che ogni cosa ascende e, insieme, discende. Senza il mirare non esiste uno studio sul tempo, non esistono dedizione, allontanamento o preoccupazione. Non esistono nemmeno le paure, che possono arrestare la vita o rivestirla nel segno di un’opportunità.
In questo senso, allora, la geografia dei luoghi è geografia di spirito, di sopportazione, di ricreazione. Ogni antro, dedalo, quartiere, strada, vicolo è arteria di un disegno umano al cui interno cresce o decresce la misura, che coincide con il senso delle azioni che compiamo, tra ciò che chiamiamo successo e ciò che denominiamo fallimento. lo sono per il fascino di questa dualità. Amiamo la crepa, la disinvolta apertura, la forra tra ciò che si estende e ciò che tremendamente si oppone. Amiamo il residuo tra ciò che trionfa e ciò che scade, nell’omonimia di un’unica suggestione: giacché usiamo la parola città per riferirci allo spazio umano che ci abita dentro, che infonde e inscrive la cartografia del tempo che viviamo e che siamo.
Image: Untitled | by Ernest Pignon-Ernest
Ilaria
Lo sguardo, quindi le parole, dell’infinito. Dell’eternità.
Carla
Grazie.