Talarico | Leggendo Gruber
Sognarsi mortali: leggendo Gente della mia vita di Gabriella Valera Gruber
Gente della mia vita (Ibiskos Editrice, 2004) è il secondo tra i libri di poesie pubblicati da Gabriella Valera. Accompagnato e sostenuto dalle incisioni simbiotiche di Ottavio Gruber, al suo interno vengono abbracciati indistintamente, diremmo quasi democraticamente, la vita e la morte, l’incontro e la perdita, la guarigione, l’amore e l’assenza, il tempo, il cosmo e la preghiera, ma tutti, sempre, inequivocabilmente tesi al vitalismo, a una forza creatrice in grado di affermare che «il femminile del mio corpo / è tutto ciò che ho di grande» (pp. 46) (lei, che non disdegna di riferirsi a sé, a un assoluto, con il maschile).
Sin dalla specifica introduttiva l’Autrice ci indica il binomio che accompagnerà tutta la nostra lettura, quello di solitudine e amore. Ma nel farlo, intende soprattutto precisarci che fra i due mondi non c’è idiosincrasia, ché se è vero che amore senza scambio, comunione e reciprocità non è tale, è altrettanto vero che non può essere senza la solitudine, senza l’aver conosciuto l’esperienza della solitudine. Meglio ancora: che non si può esistere senza l’amore e la solitudine, senza il tempo dell’amore e quello della solitudine. Eppure, ed è uno dei meriti di questo libro, nonostante le difficoltà ― lo schiaffo ― che la dimestichezza col reale può causare affinché si arrivi a una consapevolezza simile, se ne offre comunque una visione perlopiù serena, mai abbandonata al disincanto, anzi sapienziale, senza che questa commistione crei senso d’impotenza di fronte allo scoglio dell’irrisolvibile, dell’aporia(ἀπορία). «L’autobiografia», dice «si scioglie nell’incontro» (pp. 15) e le scuole orientali, la filosofiaUpanishad sull’uno indivisibile, risuonano per noi occidentali in una melodia forse più comprensibile.
In Gabriella Valera non c’è crisi beniana; l’Autrice è al mondo, lo sa, lo dice (pp. 34, 38). Ritorna così l’hic et nunc, la formula del qui e ora, con tutto il suo eroico, meraviglioso esistenzialismo:
[…] Preparati a lasciare
anche quest’ora
che sembra immobile
sospesa nell’aria sola
della città dei ricordi.
Altrove te ne andrai
e sarai ancora
anima senza splendore
ombra fugace di tanto cielo. (pp. 35)
È poesia questa che non nega l’io, ma vuole esso compartecipe di ciò che lo circonda, in una versione centrifuga dell’essere al mondo. Non c’è sfumatura di autolatria, benché si possa anche supporre che dietro vi sia un io energico, sapientemente domato. Ma se questo grande io c’è, è un io che ha voluto o ha tentato di entrare in contatto con tutto e che non ha cercato di fagocitare tutto in sé. È un io che s’è voluto cosmopolita, parte dell’universo, che s’è donato incondizionatamente.
«Vengo da un nulla / che sa d’infanzia. / Brucio la forma / perché a nessuno / distratto dalle fattezze / sfugga / il doloroso contrarsi / del pensiero / che si fa elemento» (pp. 19). Emerge a chiare lettere quel «doloroso contrarsi», quell’implosione, l’agitarsi, il grattare come fossero doglie, parto, venuta al mondo. Ci si dice quasi che è inimmaginabile un pensiero astratto, che nasca e muoia in sé, senza concretizzarsi o, meglio, senza donarsi. È dichiarazione di una poetica essenziale, spoglia di orpelli e altarini retorici, che qui, anziché impreziosire il testo (e la vita, la vita che è il testo, la vita che è nel testo) vengono trattati come elementi di disturbo per l’avverarsi della comprensione, per affrontare l’essenza, il pensiero quale è, fino al suo concretarsi. È come se il suo scrivere non fosse altro che uno sforzo per raggiungere il gradino più alto della comunicazione e della comunanza umana.
D’altra parte, la tendenza a una forma di chiarezza che è comprensibilità, nell’Autrice è chiaramente manifesta. Se si è parlato del donarsi, è perché le sue parole, fin dal titolo, sono sempre e apertamente dialoganti, volte a relazionarsi con le persone, all’incontro, al contatto. Silenzio e solitudine infatti nei testi spesso collimano, e silenzio diviene soliloquio, cortocircuito tra gli esseri al mondo, chiusura al dibattito, alla crescita, all’offrirsi. Non è poesia per sé, e benché a tratti molto intima, essa chiede, senza mai pretendere, orecchie e bocche e mani con cui intrecciarsi, per un dialogo che è urgenza, necessità, o «diritto» come potrebbe direbbe la Gruber. Il diritto di darsi, e di farlo nella più totale gratuità, di essere faro che per faro ha le sue navi. C’è la delicatezza del conoscersi e confrontarsi, del prendersi cura, senza volere nulla in cambio e senza volersi possedere (pp. 30), unicamente rispettandosi.
Quella di Gente della mia vita è evidentemente una poesia equilibrata, di grande delicatezza e dignità, che pur sapendosi mantenere riservata («[…] Sono l’erba che cresce dalla zolla / sono il sole che incontro, / sono l’alba che nasce. / Nascondo / la mia poesia / perché non si rida / del mio amore» (pp. 33)), tenta spesso la sincera messa a nudo delle proprie debolezze e timori, senza perdere mai un incedere elegante e, soprattutto, senza mai scadere nel querulo: «Ditemi / che il dolore che mi appartiene / […] è solo / una lagrima da bambino / inasciugata / e gli occhi di una donna / sapranno guardare / la profondità di quella pena / e farne / sussurro di ninna-nanna» (pp. 32). Delicata, spontanea e certamente dotta, consapevole, nella quale resistono momenti di sincera poeticità. C’è spazio anche per la filosofia, che permea abbondantemente il tessuto dei suoi scritti, ma è più un vivere filosoficamente, piuttosto che una professorale, quanto igienica, filosofia da dissertazione. Non è uno scrivere sconcertante, non farebbe a gomitate tra altre cento. Aspetterebbe il suo turno, riservata e semplice, rispettosa. Essa non cerca neanche nulla di precisamente attuale (ne abbiamo conferma a pp. 75), non rincorre stili, oggetti d’uso quotidiani. Sembra anch’essa essere tempo, fissarsi nel bianco, e non essere nel tempo. (A tal proposito risulta interessante anche l’avvicendarsi di alcuni tempi verbali che si inseguono e si accavallano (pp. 25): presenti che lavorano su condizionali, che si sarebbero inverati in un congiuntivo trapassato, al tempo di un imperfetto. Ma la dimostrazione è più caotica della resa in versi, che anzi, pulita, ben si confà alle tinte dell’eterno che tutto contiene, qui così spesso trattate.)
È una raccolta dal ritmo lineare, dove il verso si distende e si contrae senza fratture ritmiche. Se a tratti può mostrarsi malinconica, a dispetto di ciò vuole sempre convergere verso spazi aperti, di dialogo e pazienza, di luce e vita verdeggiante, trovando nell’estate la propria stagione ideale, quando tutte le finestre si aprono al mondo e con esse i loro abitanti (pp. 62). La voce che accompagna l’opera trova invece raffronto nella tanto insistita immagine degli uccelli, nel loro stare in stormi e cantare, volare e vivere semplicemente la vita così com’è, e questi ultimi forse a loro volta trovano il loro corrispettivo etereo nelle miriadi di stelle, secondo un processo di stratificazioni che va dalla terra solida all’empireo.
Come già altri tentativi, è una poesia alla ricerca di una purezza bambina, d’infanzia, ma non infantile, nel tentativo di recuperare lo sguardo, il fascino della scoperta, del coraggio di sognare e della meraviglia (così pp. 64, 65), ma senza mai disancorarsi dal mondo sensibile e da una voce raziocinante, e focalizzando sempre i propri sforzi alla ricerca di un risultato che resti palpabile, onesto, autentico: «[…] Ora mi faccio tua / né voglio altro / che un po’ del tuo mistero / per essere rapita / nella vita del sogno / e ad essa chiedere un po’ di quella verità / che tanto cerco / quando la vita è vera» (pp. 67).
Il rischio più grande di una scrittura simile sarebbe lo scadere nel buonismo, ma nella genuinità ne scampa, e nonostante il suo verso talora risulti quasi trasognante, non è mai ingenuo.
Circondati da splendide mura
e magnifiche città
ci troviamo a vivere
giorni e notti insonni,
e ad essere felici,
per cose piccole come
granelli di sabbia
in una immensa deriva,
o infelici,
sommamente,
per i perduti amori.
Intanto
il divino splendore del tempo
annuncia la sua vittoria.
Noi
lasciati sulla terra a sognare
godiamo
i limpidi riflessi dell’eternità. (pp. 24)
Eppure in tanta lucidità, come accennavamo inizialmente, si avverte un senso di caducità scevro da accenti funerei e addirittura da rassegnazione. Il Tempo, divino, immutabile, giudice e immortale, mantiene un’accezione di celestialità; è divino e splendente, e vincerà, comunque, ma non dobbiamo addolorarcene. A noi sta il vivere «nonostante il cielo» (prendendo in prestito un limpidissimo verso di Alessia Fava, in Cantami cose di terra), beneficiando del possibile che ci circonda senza abbagliare. A noi sta il godere, l’amare, diremo l’essere, riflessi d’eternità. Perché l’Autrice sa, l’ha capito, che anche l’«amore si nasconde sull’orlo della speranza» (pp. 22). Non si può allora restare sordi alle parole di Leopardi, che tanto si attagliano a molti componimenti di Gabriella Valera: «Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, […] servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo […]» (Zibaldone).
Gli scritti alterano livelli diversi di maturità. Attraversando lo specchio e la maschera (pp. 28)ci immaginiamo il belga Ensor in Autoritratto con maschere (1899), ma non riscontriamo il frastuono di quel caos mentale, né cromatico. Ci immaginiamo un giovane Esenin al suo Uomo nero ma non c’è quella rabbia alienata e alienante, non c’è malattia, non disperazione. La raccolta tutta sembra come una messa in ordine, un fare i conti col vivere, e andare oltre. Gabriella Valera si affaccia dai suoi anni a guardare (pp. 29) come fossero un promontorio, una breve sosta lungo la salita, con uno spiazzo, un punto di osservazione dal quale scrutare la panoramica, il paesaggio della vita. Ne prende visione, vive e ricorda e analizza le occasioni della vita, gli ostacoli, le soddisfazioni mancate e ottenute; sembra averle davanti a sé e soppesarle… non sappiamo l’avvicendarsi dei suoi calcoli, sappiamo solo che l’Autrice si risolve sempre nel continuare a viaggiare, verso un’ascesi che non è noncuranza e che conserva tuttavia molti punti di contatto con la materia, con un vivere impegnato. Visceralmente, l’Autrice non può fare a meno di tendere verso la guarigione, qualunque cosa accada. Sembra dirci che lì è la vita.
Sono le sue parole del generoso e del buon semplice, in pacifico ma ostinato contrasto con tanta letteratura della crudeltà e del cinico, così in voga dal più recente passato fino al nostro periodo storico. A quest’ultima lei contrappone la possibilità di un mondo vegeto, che ha dovuto fare i conti con la caducità e l’inutile, pur dimostrandosi sempre capace di salvarsi, con un filo di quella leggerezza, quasi sbadataggine, e quel carico di vertiginosa umanità (pp. 22) che solo può conoscere chi sa ancora sognarsi mortale (pp. 36).
Ed ora
respira l’aria sgangherata
di questa notte nella città.
Prendi la tua strada.
Se fa male
stringi le spalle
abbassa il capo.
Senti l’attrito
di te col nulla.
Fra l’urlo di quel male
e il nulla che risponde
il tuo corpo
continua il suo cammino. (pp. 43)
Gente della mia vita di Gabriella Valera Gruber | Ibiskos Editrice | 2004.