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Anghilieri | L’eredità perduta

L’eterna lotta tra povertà e ricchezza, tra il sobrio eroismo degli umili che sublima privazioni e disagi e il senso di superiorità spesso innato nei potenti. Ma anche la cupidigia di funzionari corrotti e bramosi di arricchirsi velocemente. E, infine, un’eredità a lungo ricercata, poi ottenuta e, nel giro di poco tempo, persa nuovamente e definitivamente, con la consapevolezza però di aver trovato qualcosa di più prezioso di un bene materiale.
È la cornice del romanzo storico L’eredità perduta, fatica letteraria di Umberto Sironi (1957-1991), un giovane autore brianzolo, prematuramente scomparso. Le sue opere rappresentano uno spaccato di vita della sua Renate: attraverso testimonianze di genere storico, narrativo, poetico lo scrittore ha cercato di mettere in luce, oltre alla sua profonda personalità, la realtà culturale, artistica e religiosa, nonché sociale e politica del territorio. La vicenda del romanzo è ambientata nella Lombardia di metà Ottocento, percorsa da fremiti rivoluzionari che attentano clandestinamente all’opprimente saldezza dell’Impero Asburgico, riconsacrata dalla Restaurazione.

Il protagonista Alessandro Tiboni è un eterno pendolare tra realtà e sogno, tra avventura e stasi, poco convinto delle sue prerogative nobiliari e sostanzialmente liberale, in perenne oscillazione tra il richiamo della Brianza natìa, terra forte ed essenziale al tempo stesso, e la nostalgia della lontana Ungheria, dove ha vissuto un’esperienza densa di libertà, carica della convincente suggestione del diverso e di una definitiva, virile emancipazione.

Forse la molla riposta di questo serrato meccanismo è un bisogno di pace che il protagonista è convinto di aver finalmente trovato, di ritorno nella sua amata terra brianzola, in Rachele Rigamonti, una contadinella affascinante per carisma naturale, ignara di dialettiche letterarie, ma forte di un’onesta cultura del buonsenso, di una sorta di fede rustica che la rende capace di soffrire e di attendere. Tuttavia c’è chi cerca di mettere in guardia i due dai rischi di una distanza naturale che si verrebbe a creare, derivante da secoli di divario sociale ed economico tra la servitù e la nobiltà.
Lei, infatti, è figlia di umili contadini alle dipendenze della famiglia Tiboni in un periodo storico certo non facile che mette a dura prova sia i ricchi sia i poveri: “I pasti anche in villa si erano fatti più sobri e frugali perché quell’anno i raccolti non erano stati abbondanti e in tutta la Brianza, specie i ceti più poveri, facevano fatica a procurarsi il cibo”. L’amore tra i due giovani però sboccia all’improvviso: se il nobile Tiboni è “turbato dalla vista della ragazza”, “si sentiva nervoso e inquieto per il mal d’amore”, lei è ancora più sconvolta, tanto da cercare rassicurazione nella vecchia governante di casa, Berta, che la invita senza mezzi termini a non costruirsi castelli per aria: “Non illudetevi, cara figliola; mi hanno insegnato che lo sguardo del padrone ingrassa la bestia, ma solo per venderla e ricavarne denaro! Voi state al vostro posto”. La vicenda sembra per i due prendere una brutta piega. Il fratello di Alessandro, l’aristocratico Giovanni, avvocato di prestigio e deputato dell’Estimo, “ul padron” per i suoi contadini fittavoli, lo mette in guardia: “Via, non fate il bambino! Avrete modo di consolarvi. Ci sono tante belle ragazze, anche del vostro rango. In fondo Rachele non è che una popolana. Riflettete: come potreste intendervi con lei?”. “Ma io sono il padrone! – replica un disarmato Alessandro – Se mi presentassi dai genitori di lei a chiedere la mano, quelli non potrebbero rifiutare…”. Alessandro desidererebbe donare a Rachele un anello, appartenuto alla madre, ma il prezioso gioiello non si trova e, solo dopo l’attenta esame del testamento materno, scopre che si trova nelle mani di un zio materno, arcivescovo in quel di Aquileia. Alessandro vede così sfumare l’opportunità di consegnare il dono come pegno d’amore e l’avidità della cognata Savina non fa che aumentare la tensione: “Se questo matrimonio si farà, ci imparenteremo coi Rigamonti – ribadisce stizzita al marito – e, nel caso nascano dei figli, c’è da chiedersi cosa succederà della situazione patrimoniale e dell’eredità. Voi, Giovanni, dovete tutelare la vostra discendenza!”.
Neanche l’intervento del curato, don Giuseppe Sirtori, che interroga separatamente i due innamorati, cogliendo il sentimento puro e disinteressato da ambo le parti, fa sì che si trovi una soluzione. La cattiva sorte si abbatte su di loro, in particolare sui Rigamonti, “gente brava e semplice, avvezza al lavoro e al sacrificio, quasi ossessionata dalla necessità di mettere da parte anche il più piccolo guadagno per sfuggire alla fame e agli imprevisti spiacevoli che la vita riserva”: i due fratelli più giovani di Rachele si ammalano di tifo petecchiale e muoiono di lì a poco. Alessandro vorrebbe portar via l’amata con sé, ma il divieto delle rispettive famiglie è perentorio. Così lui si allontana e le loro strade sembrano inevitabilmente e inesorabilmente separarsi: Rachele pare a questo punto destinata in sposa a un popolano che non ama e di cui dovrebbe solo essere “moglie buona e servizievole”, mentre Alessandro riparte per l’Ungheria e si lascia trascinare dalle vicende storiche e patriottiche, partecipando alla stesura di un giornale di una Società Segreta. Tuttavia “sembrava che la miseria lasciata in Brianza volesse perseguitarlo anche in quella terra, dove si era illuso di ricominciare una nuova vita”. Così in maniera rocambolesca fugge a un arresto e si ritrova ancora una volta, dopo qualche anno, tra le mura domestiche. “L’è vegnü a cà el sciur Lisander” annuncia il vetturino, lasciando la famiglia del giovane sbalordita e disorientata. Del resto, “il ricordo di Rachele aveva continuato a tormentarlo. Ora tornava prepotentemente sulla sua strada. Il destino sembrava aver sgombrato la via al loro incontro”. Rachele non si è sposata (il destino ha voluto che il promesso e mai desiderato sposo morisse poco prima delle nozze). Alessandro teme però che la polizia sia sulle sue tracce e ancora non si decide a tornare dall’amata. Sarà il consiglio pacato e benevolo della sorella Luisa, suor Lucia dell’Annunciazione, a suggerirgli quella verità che ha sempre saputo, che è stata per lui a lungo inaccessibile. “A volte le prove della vita ci aiutano a salire sul gradino più alto nella scala della perfezione spirituale. Entrambi potrete amarvi con maggior consapevolezza”. I due possono finalmente convolare a nozze e la scomparsa dello zio fa tornare alla mente “quell’eredità perduta”: nel testamento dell’alto prelato si conferma che l’anello, unitamente a una grossa somma di denaro, sarà lasciato proprio ad Alessandro che corre a donarlo alla moglie.

Il destino, tuttavia, non permette ai due giovani sposi di godersi a lungo le gioie della vita matrimoniale, allietata dalla nascita di due figli e dall’aver ricevuto l’eredità a lungo ricercata: la sua cospirazione contro il regno asburgico viene alla luce negli anni Venti dell’Ottocento e le indagini degli inquisitori, nonostante l’assenza di prove a suo carico e il suo proclamarsi innocente senza mai fare alcuna ammissione, lo conducono dritto in carcere.

“La verità ben più amara era che l’eredità in oro che il Tiboni aveva ricevuto dallo zio materno aveva anche stimolato la cupidigia dell’inquisitore e del capo della polizia di Mantova. Essi pensavano che, in caso di condanna alla pena capitale, la famiglia Tiboni avrebbe ceduto quella montagna di denaro allo Stato, come riparazione dei torti del congiunto, per ottenere la commutazione della pena da parte dell’Imperatore [….]. Parte di quel denaro sarebbe entrato nelle tasche dei due ufficiali, quale ricompensa per la cattura di un pericoloso cospiratore”. Solo il provvidenziale legame di due nobili lombardi, amici di Giovanni e Alessandro, con l’arciduca Ferdinando consentono a quest’ultimo nel 1830 di avere salva la vita. Il Tiboni viene graziato, ma su di lui pende il decreto di espulsione perpetua dai territori dell’Impero anche per moglie e figli. “L’atto di grazia conteneva però, su istigazione dei funzionari di polizia, anche la perdita del diritto di cittadinanza, la cancellazione dai Registri dell’Estimo, con la conseguente confisca della sua parte di eredità in monete d’oro”. Il piano dei funzionari corrotti è andato a buon fine e Alessandro, Rachele e i figli al seguito sono costretti a imbarcarsi su una nave diretta in Argentina. Proprio in quel momento, nonostante l’eredità andata in fumo, la precarietà per il futuro, la povertà materiale, Alessandro trova la forza di rivolgersi all’amata Rachele, ancora una volta suo punto di riferimento: “Fatevi coraggio: il peggio è passato. Ricostruiremo la nostra vita e saremo di nuovo felici”.
E, proprio lontano da quella terra di Brianza, amata e al contempo respinta, Alessandro e Rachele possono finalmente essere liberi dagli schemi sociali e da ogni costrizione. Il nobile Tiboni, ormai semplice cittadino emigrante in cerca di fortuna, considera il suo unico e più prezioso bene, che va ben oltre un’eredità materiale o un titolo sociale: “Ora aveva Rachele e i figli. Nessuno li avrebbe più potuti separare; per loro avrebbe lottato contro le avversità dell’esistenza in un mondo totalmente estraneo e sconosciuto”.


Umberto Sironi | “L’eredità perduta” | Edizioni Marna | 1993.

Photo by Jonathan Borba

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