Saracino | La didattica della crisi
Tra le pagine del recente numero di maggio di Andersen, l’autorevole mensile di letteratura e illustrazione per il mondo dell’infanzia, si legge un nutrito ventaglio di testimonianze che fanno riferimento ai vantaggi e agli svantaggi della famosa (o famigerata) DAD (abbreviazione di Didattica a Distanza) venuta in soccorso ai tempi della chiusura delle scuole e ancora per pochi giorni in attività.
Ho letto con voracità i pareri di chi, tra maestri, professori e dirigenti, ha voluto lasciare per iscritto la propria firma su un pensiero, un’opinione, una riflessione a riguardo dell’argomento; la mia ansia di lettura è coincisa con la voglia di cercare e trovare un approdo di condivisione rispetto a quanto ho personalmente elaborato a proposito di questo innovativo modo di fare scuola.
Non entrerò nel vasto vocabolario settoriale in cui il mondo dell’insegnamento ama riflettersi, non userò quell’idioma specialistico che segna e confonde, a volte con vanità, un ambito professionale che, va da sé, rispetto profondamente. Le mie riflessioni saranno spicciole e forse banali, riempibili di poche osservazioni inutili, ma beneficiano di un confronto diretto con chi con la Dad si è trovato a fare i conti, faccia a faccia.
Nei primissimi giorni di marzo tutto ha avuto inizio: agli slogan gridati e patriottici di alcuni docenti Ce la faremo, la scuola non si ferma! Lasciateci lavorare! seguivano le battute più modeste e imbarazzate di altri Da dove si comincia? Sarò all’altezza della situazione? Già, perché esistono – fortunatamente – persone abituate a porsi delle domande e ad agire con un senso non retorico di umiltà. A volte lo fanno a voce troppo bassa, sotto una luce modesta e allora sono messe in ombra dagli animatori o professionisti del digitale, da chi sì che sa usare gli strumenti giusti…Scansati che faccio prima io.
L’impressione è che all’inizio di marzo fosse in corso una sorta di gara podistica. Chi aveva le scarpette e il fiato adeguati si metteva in marcia e macinava ore di didattica al computer, come se nulla fosse. Più ore fai più sei ligio al dovere più arrivi dove vuoi. Nel frattempo studenti e genitori ti correvano dietro, arrivavano più o meno puntuali alle videolezioni (sì, in alcuni incontri c’erano anche i genitori, nascosti ai lati dello schermo), svolgevano i compiti, tra un canto di speranza e l’altro. Fuori? Fuori dalle pareti domestiche si gonfiava un’aria plumbea di morte, di incertezza e spaesamento generali, ma cosa poteva importare se dentro c’era la didattica a distanza e alcuni docenti, ugualmente madri e padri di figli, erano travolti dalla necessità di accudire la casa, la famiglia e magari bambini di due, tre anni, bisognosi di attenzioni assidue e imprevedibili? Cosa importava se qualche docente aveva un parente o un caro amico malato di Covid19? Nessuno si fermi, i nervi restino tesi, la forza morale non ceda! Purtroppo, però, spiace sottolinearlo, spesso la forza morale cede. Perché la vita non è un film dei giorni nostri dove l’azione deve prevalere sul resto. La vita può anche essere inazione, poiché regolata da organi che non sono intercambiabili, non hanno accensioni automatiche o rapidi passaggi di informazioni.
Una delle più scontate domande che in quei giorni mi è girata nella testa e che tuttora non trova conforto è la seguente: come può un docente, magari genitore di bimbi piccoli da curare a casa, fare della didattica a distanza un marchio di orgoglio irrinunciabile per alunni e famiglie? Un giorno, una brava insegnante ha osato porre questo quesito, tanto banale quanto urgente, in un gruppo molto social di mamme lavoratrici. Nessuna di loro ha saputo creare un confronto intelligente, anzi è partito il solito noioso, privo di immaginazione, disco rotto da parte di una cerchia Di cosa ti lamenti, che hai tre mesi di ferie l’anno! Ora capisci cosa si prova a lavorare sul serio. Prenditi una babysitter, no? Ah, certo, facile e immediato in tempi di confinamento.
Ma il problema non è la Dad, certamente non lo è. Il punto è un altro. Come ha sostenuto di recente in televisione il filosofo Cacciari, il pericolo sta nell’ideologia che ne proviene e che rischia di solidificarsi nel segno di un’ottusa direzione di pensiero.
Che la scuola sia corpo, tatto, incontro e anche “scontro” fisico, è indubbio. Che debba fondarsi sulla speciale intimità della relazione e della perdizione nel fiato e nella gioia di amicizie o ricordi indimenticabili lo è altrettanto. Così come è inattaccabile il fatto che la didattica a distanza abbia supportato in questi mesi di disorientamento migliaia di alunni. Ben venga, allora la Dad, sì, certo. Ma attenzione a non farla divenire il mezzo trainante di uno stile di pensiero cieco che si fa massa indistinta e generalizzata e che alla lunga richiederebbe di soffocare, ancora una volta, lo splendore e la verità delle diverse esperienze di vita.
Torno a riallinearmi con quanto detto dal professor Cacciari: il problema non è la Dad, anzi. Probabilmente, nello stesso momento in cui scriviamo, la Dad è già una questione anacronistica, soppiantata da una neonascente superDad. Il problema è come si decide, in tempi di spersonalizzazione, di concentrarsi sulle persone, abitandole attraverso relazioni che rinunciano alla superficialità e scelgono l’attenzione e la condivisione. Comprendere le ragioni e i problemi dell’altro aiuta a fronteggiare ogni malinteso e anche quelle micro forme di abuso di potere da cui siamo circondati.
Non c’è progresso tecnologico che non passi dapprima per un luogo di incontro con l’altro. E se l’uomo vacilla per insicurezze, spaventi, ansie, altrettanto l’uomo ha il dovere di porgere una mano e reagire. E non per un accorato tumulto di fratellanza che a volte sa di stucchevole panegirico, ma perché l’educazione profonda e duratura passa per le più vere competenze che conosco, quelle della compassione e della compartecipazione alle difficoltà altrui.
Image: The Peasant Family, 1642 (oil on canvas) by Le Nain, Antoine and Louis (d.1648) & Mathieu (1607-77); 61×78 cm; Louvre, Paris, France.