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Montorfano | Room in New York

E’ sera. Quasi si sente il vento passare tra i pilastri della casa.

Una grande finestra aperta ci spinge verso l’interno del quadro e nel medesimo istante, attraverso il perimetro nero del suo telaio e la prospettiva scorciata, ci paralizza in un qui latente, inutilizzabile.

Davanti a noi, sola, una piccola stanza. Quadri allineati sulle pareti ne circoscrivono i bordi.

La massa di due figure. I visi scheggiati dal colore, solo abbozzati. La luce soffusa che li colpisce alle spalle, poi sul fianco e tutto sembra concorrere a cancellarli, a portarli via per sempre.

Solo due medium resistono e li accomunano.  Due oggetti transizionali: il giornale, il pianoforte. Entrambi centri comunicativi. Entrambi una stanza a sé.

Basterebbero queste distanze, questi strappi sulla superficie dell’opera per avvicinarci, mostrarci quanto il contenente sia più grande del contenuto, quanto la metonimia tra i tropi, dilaghi. E il colore, la lingua del colore, diventi il corpo stesso che la morte attraversa per aprire uno spazio dove i doppi si ripercuotono. Perché questi due corpi sono due linee parallele, ma due linee parallele che a un certo punto si incrociano e si incrociano per ferirsi. Il colore del vestito della donna è il colore della poltrona che accoglie l’uomo. Il vestito dell’uomo, il suo bianco e nero, è ogni tasto del pianoforte che lei attende ad usare. Il pianoforte che parzialmente, con la sua struttura, il suo legno, la sorregge.

Allora qui, in questa stanza che lega sonno e veglia, mondo supero e mondo ctonio, queste due figure, questi due grumi di colore si marcano, mettono sé nel supporto dell’altro rimanendo impassibili, lontani, in un gioco continuo di perversione che attende.

E quel dito sospeso sulla tastiera, quel dito che gli occhi continuano ad osservare e la mano, i tendini, a tenere, lì, dritto come una freccia e sospeso nel suo divenire, quel dito che non sapremo mai se avrà valicato lo spazio del possibile che è estremamente vicino alla speranza, al perdono, avrà fatto franare la stanza con una semplice pressione. Avrà reso possibile con la sua azione che i corpi uscissero non dal loro torpore, ma dalla loro vita. Dal loro destino. Il dito, e da lui la nota, da lui il suono, può cambiare definitivamente le sorti di questa visione congelata. Di questo quadro in bilico, tra virtuale e monumento del nome.

Allora la coscienza si desterà. E quell’uomo e quella donnausciranno da questo spazio edenico dove tutto è riunito e insieme resta lontano, impossibile, privo di coscienza. Quel dito, nel momento della sua caduta li segnerà, li taglierà per sempre e la loro coscienza atrofizzata, congelata nel gesto, questa coscienza nel suo stallo e nella sua completa felicità, cadrà. Cadrà dalla serenità alla noia e da qui alla disperazione, fino a sentire la pressione e il senso erotico del possesso. Traccerà una linea di confine che sarà la lingua e la chiameranno: liberazione; e in quel condursi, in quel volere essere prossimo disegneranno i contorni di un ostacolo, una contraddizione che è il suo destino. Un volere che è nello stesso tempo il desiderio e la ricerca ad essere negati, ad essere soppressi.

Con la caduta del dito sul tasto inizia la fine dell’innocenza. Inizia la vita, il desiderio, il dolore, l’amore.

Ma questo Hopper non lo dipinge. Perché forse questo spazio crudele ha luogo solo in una forma più alta di noi stessi. In un suono o ancora più in alto, in un’efflorescenza dove il segno cancella se stesso, affermandosi nel potere che lo frena.

E quello spazio, quella stanza, è oltre la porta che sta alle loro spalle. Dipinta alta. Nel verde. Chiusa.


Image: “Room in New York” | 1932 Olio su tela | 74,4 x 93 cm. Lincoln, Sheldon Museum of Art, University of Nebraska-Lincoln, UNL-F.M. Hall Collection.

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